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Il discomane

Inesauribile Al Jarreau Ora torna a incantare con la Metropole Orkest

Un disco dal vivo con la grande band jazz pop di Vince Mendoza rivisita standard come Agua de Beber e brani originali come Cold Duck. E dà lo spunto a Brother Giober per una playlist dal sapore jazzy&funk.

Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema

** se non ho proprio altro da ascoltare…

*** niente male!

**** da tempo non sentivo niente del genere

***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

 

 

ARTISTA: Al Jarreau and the Metropole Orkest

TITOLO: Live

GIUDIZIO: ***1/2

Ho ascoltato per la prima volta Al Jarreau circa 35 anni fa e, guarda caso, si trattava anche allora di un disco dal vivo intitolato Look to the Rainbow: live in Europe. Vi arrivai, manco a dirlo, una calda notte d’estate e ancora una volta, attraverso la radio, in una trasmissione di Carlo Massarini.

Le mie scarse conoscenze dell’epoca mi impedirono di assaporarne appieno la bellezza: molti brani erano assai difficili da comprendere, alcuni di questi troppo impostati sui virtuosismi del cantante, ma nonostante ciò fui totalmente rapito dalla bellezza di Letter Perfect, Rainbow in your eyes e della rivisitazione di Take Five, di Dave Brubeck, brani che rappresentavano la perfetta sintesi tra ritmo, interpretazione e melodia.

Da quel giorno, per me, Al Jarreau ha sempre rappresentato il sinonimo di libertà, di improvvisazione, di un vagare al di fuori di ogni schema.

Gli ha fatto un po’ difetto, nel prosieguo della sua carriera una produzione discografica non troppo ordinata, spesso per etichette differenti, con uscite che parevano più il frutto di bisogni contingenti che non di una azione programmata. Dopo i primi anni nei quali la sperimentazione era continua, le soluzioni musicali a volte sorprendenti, la produzione di Al Jarreau si è adagiata su un easy listening di grandissima classe, sempre con forti connotazioni jazz e caratterizzata dalla collaborazione con fior di artisti come Eumir Deodato e George Benson.

Io amo Al Jarreau qualsiasi cosa faccia, sia quando si avvicina pericolosamente alla musica di più facile ascolto, sia quando si inerpica verso i sentieri più irti della sperimentazione. Lo apprezzo quando canta Mornin’, uno dei suoi maggiori successi commerciali, o quando rielabora Take a Five. Certo, questo inverno, quando l’ho visto al Festival di Sanremo duettare con i Matia Bazar ci sono rimasto male, non tanto per questi ultimi, che rappresentano una mia “debolezza” musicale, quanto proprio per la qualità dell’esibizione del nostro, assolutamente penosa.

Ma ancor oggi resto incantato ogni volta che ascolto la “sua Your Song”, il successo di Elton John , del quale Al Jarreau offre una versione, a mio parere, straordinaria, inarrivabile e quindi superiore all’originale. Se non erro, questo è il quarto album dal vivo pubblicato dal cantante di colore, tra questi a tutti consiglio Tenderness, un lavoro registrato in studio ma in presa diretta.

Al Jarreau And The Metropole Orkest Live, questo è il titolo del nuovo lavoro, raccoglie il doppio appuntamento tenuto al Theatre de Parade Den Bosch (Paesi Bassi), in un’esibizione con la celebre Metropole Orkest, una grande orchestra jazz/pop formata da 52 elementi, il cui direttore, Vince Mendoza, pare sia buon amico di Al Jarreau e profondo conoscitore di tutta la sua produzione musicale.

Le cronache raccontano che un bel dì, Al Jarreau gli si sia rivolto chiedendogli di poter registrare dal vivo, con l’orchestra, un lavoro fatto di sue canzoni e di evergreen ai quali dare maggior ritmo. Ed ecco qui il risultato.

Temevo di trovarmi di fronte ad un lavoro impeccabile, stupefacente anche, ma freddo e al rischio che la big band riuscisse in qualche modo a mettere in secondo piano il protagonista. Nulla invero di tutto questo e il risultato finale è assolutamente riuscito.

In tutto, le canzoni sono 11, e tra queste sono presenti alcuni standards di grande notorietà.

Agua de Beber ad esempio, una delle versioni più riuscite tra i brani presentati, è una vecchia composizione di Antonio Carlos Jobim e Vinicius De Moraes del 1961, ma già nel repertorio del cantante di colore dal 1976: dopo un intro nel quale il protagonista dà sfoggio del proprio virtuosismo, il ritmo prende forma, tastiere e un soffice sottofondo di fiati forniscono l’adeguata cornice ad una melodia immortale. Il brano termina con un crescendo di ritmo e di suoni totalmente coinvolgente. Grande pezzo e uno degli apici del disco.

Midnight Sun è una composizione del grande Lionel Hampton ed è del 1947, ripresa per la prima volta da Al Jarreau in Accentuate the Positive del 2004; nel nuovo disco ne viene data una lettura che contribuisce a creare una grande atmosfera grazie anche ad un’interpretazione vocale particolarmente misurata e riuscita.

Infine I’m Beginning to See the Light è di Duke Ellington e, curiosamente, vive in questi giorni di un ulteriore rilettura, quella di Joe Jackson nel disco dedicato al Duca. Qui sembra di essere al cospetto della grande band di Count Basie: ritmo, colori, fiati in quantità e una serie di assoli da far accapponare la pelle ed Al Jarreau pare si diverta per davvero.

Gli altri brani fanno parte tutti della produzione originale di Al Jarreau ma non mancano le sorprese e le conferme.

Cold Duck apre il disco ed è anch’essa tratta da Accentuate the Positive del 2004. Se qualcuno voleva capire le ragioni della presenza dell’orchestra, troverà qui ogni risposta. Nel disco di studio siamo in presenza di un brano di discreta riuscita, contrappuntato dalla presenza costante di una chitarra dal suono molto jazzy, mentre qui il ritmo è accelerato, i colori e le sfumature innumerevoli e l’atmosfera generale calda e avvolgente.

Jacaranda Bougainvillea è dolce e delicata, cantata in modo straordinario e con una presenza dell’orchestra assai misurata e contenuta ma estremamente efficace. Ma qui quello che fa la differenza è proprio lui, Al Jarreau, che ne dà un’interpretazione particolarmente riuscita.

Trascurabile è, per me, Flame, mentre We’re in This Love Together, benché appartenente al repertorio più commerciale del nostro, mantiene la sua carica incontenibile, l’ ottimismo che ogni canzone d’amore dovrebbe avere e la sua leggerezza.

Scootcha Boty, sembra presa dal repertorio di Duke Ellington ma non è così, è una composizione del “nostro”. La riuscita è assai piacevole ed è soprattutto nella seconda parte che il brano prende forma e ritmo.

After All è un lento assassino, un po’ troppo zuccherino ma da non disprezzare, in un arrangiamento più da EW&F (ma non è loro il brano) che non da Al Jarreau.

Chiude il lavoro Spain (I Can Recall), il brano più lungo del disco, quasi otto minuti, che dà libero sfogo alle capacità dell’orchestra e dei suoi solisti.

Un bel disco. Nonostante gli anni Al Jarreau appare ancora artista motivato e innamorato del suo lavoro e la scelta della Metropole Orkest risulta ad un esame a posteriori quanto mai azzeccata. Ascoltate il disco e fatelo in santa pace, sono certo lo apprezzerete.

Brother Giober

SE NON TI BASTA ASCOLTA ANCHE:

Joe Sample and Randy Crawford – Feeling Good

George Benson – Songs and Stories

Michael Franks – The best of

ALTRO (dischi dimenticati, nascosti del passato, novità meritevoli di attenzione)

X – Los Angeles ****. Il Punk non è mai stato il mio genere preferito. Ma il disco d’esordio (siamo nel 1980) di questo gruppo californiano ha rappresentato per me una vera e propria folgorazione. Grandi canzoni, grande musica, grande ritmo ed una cantante , Exene Cervenka, assolutamente carismatica. Mettetelo sul piatto e non riuscirete a stare fermi per circa 40 minuti. Coinvolgente, trascinante, genuino. Dimenticavo… il produttore è Ray Manzarek dei Doors.

Joe Jackson– The Duke **1/2 Che uno dei miei preferiti di sempre fosse fortemente innamorato del Jumpin’ Jive e del jazz più tradizionale non era un gran segreto. Alcune prove del passato (1984, Body and Soul) pubblicate in pieno marasma new wave lo dimostrano: qui Joe Jackson si circonda di ospiti, alcuni dei quali altamente improbabili (Iggy Pop!!!!????), e il risultato finale è in alcuni casi buono (Caravan) ma in altri meno (Mood Indigo). Poco convincente, comunque, il tutto.

Melody Gardot  The Absence*** E’ particolarmente gradevole il lavoro di questa giovane cantautrice che giunge sul mercato dopo il successo del 2009, My One and Only Thrill. Registrato a seguito di un lungo viaggio che l’ha portata in ogni dove del mondo, il lavoro risente di numerose influenze etniche: suoni dall’Argentina, dal Brasile e africani riempiono le note di questa bella raccolta. Il produttore, anche chitarrista nel disco, è Heitor Pereira, già con Sting, Seal e Caetano Veloso, mentre tra i musicisti che hanno partecipato alle registrazioni del lavoro, spiccano i nomi di Paulinho da Costa (percussioni), di Peter Erskine (Weather Report) e di Jim Keltner (mezza West Coast) , entrambi noti batteristi.

PLAY LIST: jazzy + funk

Al Jarreau – Your Song

Style Council – The Lodgers

Joe Jackson – You Can’t get What You Want

Steely Dan – Black Cow

Donald Fagen – I.G.Y

George Benson – Breezin’

Randy Crawford & Joe Sample – Today I Sing the Blues

Maceo Parker – Uptown Up

Marcus Miller – Funk Joint

Fourplay – Argentina

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