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L'intervista

I Musici di Francesco Guccini al Druso: “Portiamo ai giovani la musica del Maestrone”

Vince Tempera coi Musici giovedì a Ranica: "Il mio primo incontro con Guccini”

18 agosto 1967, ore 14 del pomeriggio. Un caldo difficile da sopportare. La stazione centrale di Modena è praticamente deserta. Solo un ragazzo di trent’anni circa, alto e senza barba che aspetta un altro in arrivo da Salerno. I due non si erano mai visti prima. Si avvicinano, si presentano. “Dove hai la macchina”, chiede il primo. “Veramente non ho la patente – risponde l’altro – per caso possiamo usare la tua auto?”. “Sono arrivato qua in treno, e in tutta sincerità non ho mai guidato”.

Questo è stato il primo incontro tra Francesco Guccini, cantautore modenese, e Vincenzo Tempera, in arte Vince, pianista, compositore e direttore di orchestra, uno dei protagonisti dalla musica italiana degli ultimi sessant’anni.

Potrebbe essere l’inizio di un film – e magari un giorno lo sarà – in cui appare un Guccini, quasi impossibile da immaginare, senza barba. “Allora Francesco non era ancora il maestrone che tutti conosciamo – racconta Tempera –. Ai tempi sconosciuto scriveva per i Nomadi”. Pensate a testi come Noi non ci saremo, Dio è morto, Canzone per una amica o Ophelia, canzoni simbolo di intere generazioni.

“Fu proprio Corrado Vacchelli, manager dei Nomadi, ad organizzare quell’incontro – prosegue il maestro Vince – ma senza macchina, non sapevamo come arrivare alla sala prove dei Nomadi, che era una vera e propria stalla, a Novellara”. I due, allora giovani musicisti, raggiungono il più vicino telefono a gettoni e si fanno venire a prendere dal camion degli strumenti. Un aneddoto stupendo, dal sapore malinconico per chi non ha potuto vivere quegli anni.

Da quel momento la collaborazione tra Guccini e Tempera non si è mai interrotta, come la loro amicizia, che continua tutt’ora. Quando nel 2013 il maestrone ha annunciato il suo ritiro dai live, ha passato il testimone ai musicisti che lo hanno sempre accompagnato in studio e nei concerti.

Ospiti al Druso di Ranica nella serata di giovedì 13 dicembre, i Musici, come soprannominati dal cantautore modenese, riproporranno i capolavori del poeta. Alle tastiere il maestro Vince Tempera, al sax Antonio Marangolo, alla voce e alla chitarra l’inconfondibile Flaco Biondini.

Maestro Tempera, com’era lavorare con Guccini ai tempi di L’isola non trovata e di Radici?
Francesco era solito tirare sempre le 5 del mattino, tutti i giorni. Bevendo e fumando, era fatto così. Ma oggi – caro il mio Francesco – non può più reggere quei ritmi. Lavorare con lui non era un dovere, ma un piacere. Nulla era preparato in anticipo, ci inventavamo le cose al momento e ne discutevamo insieme. Poi alle 11.30 circa, si andava sempre all’osteria di un certo Fausto, al nostro studio di registrazione a Milano. Era il periodo tra ottobre e novembre, in città arrivavano i primi freddi. Guccini amava riscaldarci con pane e salamella e grappino. Dopo la merenda di metà mattina, si ritornava in studio fino all’ora di pranzo. Alle 12.45 eravamo di nuovo da Fausto, per un pranzo abbondante di libagioni e vivande. Nel pomeriggio si lavorava fino alle 18.30, poi tutti a casa perché alle 20 Guccini era solito recarsi in una trattoria vicino alle colonne di San Lorenzo, e lì rimaneva con amici fino alle cinque del mattino. Per un album di sei canzoni era necessaria una settimana di registrazione: un piacere, più che un lavoro. Tra un divertimento e l’altro sono venute alla luce dei capolavori come Asia, Autogrilli, Vorrei, e tante altre.

I testi gucciniani sono complessi. Arrivava prima la musica o le parole?
Guccini arrivava in studio con la canzone già finita, con chitarra e voce. Da lì iniziava il mio lavoro, dovevo trarre tutte le parti musicali della canzone. Autogrill è stata l’ultima canzone a cui ho lavorato come unico arrangiatore. Poi, nell’82, Francesco volle ampliare la formazione dei live – c’era solo Flaco alla chitarra. Così abbiamo cominciato a fare i concerti. Per cui tutti gli altri album, da Madame Bovary in avanti – per intenderci – sono stati arrangiati in sala prove coralmente, ognuno dava il proprio contributo. Prima di incidere definitivamente un pezzo, lo suonavamo dal vivo per tre-quattro mesi, solo dopo andavamo a registrarlo. Il rituale era sempre lo stesso: sala prive e trattoria. Ricordo ancora Francesco – quando registravamo a Bologna – che amava mangiare il cotechino e la salama ferrarese, quella salatissima che solo lui poteva digerire.

Ci parli del progetto. Andate in giro per tutta Italia con il benestare del maestrone, che però non sarà sul palco: è un’esperienza completamente diversa dai live del passato.
Con l’età Guccini si è appesantito. Così, come Bob Dylan ha dato il benestare alla sua band, lui ha avuto piacere che fossimo noi ad andare avanti. “Preferisco voi che non le solite cover band”, aveva detto. Noi – io, Biondini e Marangolo – siamo gli originali. In questo caso la voce è quella di Flaco Biondini, argentino passionale, il più vicino a quella del maestrone. Guccini ha sempre detto “avanti musici!”. Noi abbiamo accolto questo invito alla lettera: continuiamo a portare le sue canzoni in tutta Italia tra il vecchio pubblico, appassionato di Guccini, e i giovani.

Non solo Guccini. Tra le sue collaborazioni anche Dalla e Battisti. Ci parli dei due Lucio nazionali.
Negli anni Settanta collaboravo con Lucio Dalla e, ovviamente, con Ron. Nel ‘72 io e Lucio lavorammo su varie canzoni, alcune pubblicate, altre no. Che dire di Lucio? Era un personaggio divertentissimo. Quando si crea un feeling tra musicisti che parlano la stessa lingua, come è successo a noi, è praticamente impossibile non andare d’accordo. E poi c’è stato anche Lucio Battisti. Abitando nella stessa città, Milano, avevamo molte più occasioni di vederci e frequentavamo lo stesso gruppo di amici, come Mario Lavezzi e Mogol. Lucio produsse due album de Il volo, in cui io suonavo, e Il mio cane si chiama Zenone, una delle mie canzoni. E io partecipai alla registrazione di alcuni suoi album. È curioso il rapporto che mi lega a Dalla e Battisti. La mia carriera è iniziata con entrambi: ho diretto Il cielo di Dalla, diventando il più giovane direttore d’orchestra di musica leggera e jazz. Poco dopo ho conosciuto Battisti: erano i tempi di Un’avventura.

Guccini si è spesso ispirato ai grandi movimenti di rivolta. Nelle sue canzoni ritroviamo il ’68 italiano. Come è stato il suo ’68, maestro?
In tutta onestà per me il ’68 non è mai esistito. Non l’ho vissuto. Non avevo tempo di scendere in piazza per due ragioni: perché studiavo e perché facevo musica. Il vero operaio non andava in piazza, a manifestare c’erano i borghesi che non avevano nulla di meglio da fare. Inoltre, io sono sempre stato apolitico. Ho sempre preferito appassionarmi ai movimenti artistici. Amavo la filosofia dei Rolling Stones, dei gruppi musicali di San Francisco. È vero, Guccini trovava la propria ispirazione dai movimenti filosofici e politici. Oggi non c’è più niente di tutto questo. Conoscendolo bene, credo che al massimo Francesco potrà trovare fonte di fertilità artistica dei recentissimi tumulti parigini e di tutto il resto della Francia. Parlerà del popolo che si sta ribellando ad una casta massonica.

Un’ultima domanda, alla quale deve rispondere con estrema sincerità. Lei riesce a ricordare a memoria tutte le strofe de La locomotiva?
No, è praticamente impossibile! Nemmeno Flaco ci riesce, ha bisogno dei testi durate il concerto. Anche Francesco stesso leggeva i testi ai live. Poi magari si ricorda a memoria le canzoni di Nilla Pizzi del ’52, ma i suoi testi sono davvero complessi per riuscire a rammentarli alla perfezione.

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