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Le ali della libertà

L’amore malato: storia vera di un “maschicidio”

Franco Bertè, il direttore sanitario del carcere di Bergamo, racconta la confessione di una detenuta che ha ucciso il suo amante.

Sesta puntata dei nostri racconti dal carcere. Mentre scrivo nevica e fa molto freddo. La neve ha ricoperto anche il cortile dell’”ora d’aria” e, per quanto non insolita a Bergamo, ha rappresentato un “diversivo” divertente per dare un taglio diverse alle lunghissime giornate che in carcere, per i detenuti, sono spesso eterne. La primavera però è alle porte anche se per qualcuno sarà solo un cangiar di colori dalle sbarre perché di primavere ne vedrà susseguirsi decine prima di vederne una da fuori. Il mondo di dentro, come lo chiamo spesso io nei miei racconti, ha regole e percezioni diverse dal mondo di fuori. Ve le racconto anche in questa occasione attraverso la terribile storia della protagonista di questo racconto tratto dal mio nuovo libro, “Passi Perduti” by Cairo editore.

L’amore malato”. Quante storie di amori malati leggiamo quasi ogni giorno… troppi. Questa è solo una di quelle, vista per una volta dal di dentro, dal racconto di chi ne ha decretato la fine.  Sperando di avervi ancora tra i miei lettori vi do appuntamento ancora su queste pagine ad aprile. Vi ricordo come sempre che se volete raccontarmi o chiedermi qualcosa potete scrivere alla
redazione che mi girerà le vostre mail a cui risponderò volentieri. Buona lettura e buona primavera a tutti quelli che coltivano la speranza.

Mattina presto, anzi l’alba. Sento Zeus che cerca di aprire la porta. Vuole già uscire, tanto dovevo alzarmi… guardo l’ora e oggi è persino in anticipo, sono le cinque e mezza. Sonno mortale. Zeus il mio nuovo cucciolo di pastore del Caucaso, si fatica a credere non sia un cucciolo d’orso. Mi arrendo alle sue unghie che stanno devastando il portone antico e metto a me la tuta e a lui il guinzaglio, fuori il vento freddo di gennaio schiaffeggia entrambi.

Ancora è completamente buio, siamo soli, illuminati dalle prime macchine del prossimo traffico caotico di Bergamo. Il freddo è pungente e trafigge solo me, Zeus protetto dalla sua folta pelliccia tira come un matto fino all’edicola in fondo alla strada. I quotidiani giacciono fuori ancora imballati di brina. Su quello locale si legge a caratteri cubitali “UCCIDE DISABILE IN ALBERGO”. Non c’è mai limite al peggio, penso mentre decido di rientrare prima di assiderami. Avrò tempo di leggere l’articolo davanti al mio caffè prima di andare al lavoro.

Sembra il flashback di un film, sono passate poche ore dalla mia passeggiata mattutina e mi ritrovo di fronte l’assassina del disabile. È in stato di shock, occhi vitrei e respiro convulso, mi guarda ma non mi vede. Di solito tranquillizzare le persone mi riesce bene, ma stavolta le mie frasi rimbalzano contro un muro, quello della lingua, la donna è una marocchina e pare non conosca una
parola di italiano… però è strana… sembra arrabbiata.

Devo assolutamente parlare con lei, il giudice ha richiesto a brevissimo una relazione medica. Così arriva di corsa Latifha, la mediatrice culturale del carcere. Appena sente parlare la lingua madre la donna si rilassa e cominciano a colloquiare timidamente. Non capisco nulla ma vedo la detenuta piangere disperatamente. La rabbia ha lasciato il posto allo sfogo di cui tra poco scoprirò i contenuti. Ha solo trentotto anni ma ne dimostra molti di più e mi ricorda tanto quelle donne che vedevo da bambino nei paesi del sud Italia. È pulita, profumata, mani in ordine e capelli raccolti…. mi rivolgo alla mediatrice “falla cominciare dall’inizio, dove è nata, come ha vissuto… tutto”.

Lei mi guarda e so cosa vuole dirmi, quindi la anticipo… “Fidati e dille di fidarsi, non preoccuparti fatti raccontare la sua storia ,da quando si ricorda almeno”. Mi fa un cenno per dire va bene.

Kadija, questo il suo nome. Lo urla quasi mentre compilo il modulo aiutato da Latifha evidentemente a disagio davanti al presunto nuovo mostro delle cronache. Più che un mostro Kadija sembra però un animale spaventato e chiuso in gabbia. Finalmente guardandomi mi vede e il mio camice bianco la tranquillizza certo più delle divise. E comincia a raccontare i fatti che me l’hanno portata davanti in questo aspro gennaio, aspro come le sue parole.

“Sono nata in un villaggio del Marocco nella periferia di Casablanca e adesso sono vecchia e finita”. Si stringe le mani e poi alza gli occhi bagnati mentre Latifha traduce e io la incoraggio con lo sguardo che non ha bisogno di traduzioni “La mia famiglia aveva i campi e io li coltivavo con loro, venti ore al giorno dall’alba alla notte, c’era sempre da fare eppure non erano mai contenti. Non mi hanno mai voluto mandare a scuola e adesso sono vecchia e ignorante, non so leggere, non so scrivere, non so capire il mondo e lui non capisce a me”. Analfabeta, come tante che passano da questa gabbia, me lo annoto mentalmente per le mie stupide ricerche da troppo alfabetizzato.

“Vedi la mia faccia brutta con le pieghe? Mi ha cotta il sole mentre le vostre donne sono lisce e belle”. Chiedo a Lathifa di accelerare il racconto o faremo notte. Lei mi spiega che se la interrompe teme non racconterà poi tutto. Tutto fino al suo ritrovamento con le mani piene di sangue davanti all’hotel dove il connazionale Hassan è stato trovato colpito a morte da decine di
coltellate. Lathifa ha ragione, ma il tempo è maledetto in questo posto maledetto fatto di sbarre e incartamenti: “Ho visto la città solo una volta quando hanno deciso che dovevo sposarmi. Decidevano sempre tutto loro. Ma io non sapevo il motivo del breve viaggio in città, pensavo che mi compravano finalmente un vestito vero e invece… in città ho incontrato quell’uomo schifoso”.

Kadija guarda oltre noi e lo schifo mi raggiunge col suo ricordo “Avevo ventidue anni e tanta voglia di scappare ma lui mi ha preso in casa complici i miei genitori e non faceva che scoparmi e darmi le botte. Ho ancora i segni di quell’ubriacone”. Kadija si arrotola le maniche infeltrite del maglioncino azzurro e mostra una brutta cicatrice “Sono piena di queste, ogni tanto usava anche il coltello quella bestia”.

Si gira di colpo spaventata, bussano. La mia segretaria entra con un biglietto in mano. Le tre donne si guardano diffidenti mentre io leggo che il Giudice mi vuole ricevere entro un’ora. Tempo maledetto. “Vedi lei è liscia”. Lei chi? Mi chiedo e poi mi rispondo guardando Beatrice uscire lasciando nella stanza il suo profumo di vaniglia. Non mi piace la vaniglia. Beatrice ha almeno dieci anni di più dell’assassina ma sembra sua figlia.

“Dopo quattro anni che io lavoravo e lui beveva ho chiesto il divorzio e sono tornata al villaggio più povera e stupida di prima. Le botte me le han date anche mio padre e i miei fratelli perché li ho disonorati. Almeno la fatica nei campi ha quasi cancellato il ricordo del mio ex marito. Fino ad ora…”. Kadija si accarezza la pancia. Figli non ne ha avuti, dice di aver iniziato due gravidanze
interrotte però dai calci nel ventre “Vecchia e sterile”.

Mentre Lathifa continua con le domande rileggo i particolari del ritrovamento del corpo del disabile, una scena da filmhorror. Un lago di sangue e un particolare inquietante. Non mi capacito che quella davanti a me ne sia l’artefice, così esile e dimessa. La scopro a guardarmi con disprezzo e mi si gela il sangue “Gli uomini sono tutti delle bestie”. Di nuovo i singhiozzi interrompono la
narrazione della sua sua vita. Io ne approfitto per uscire a fumare. Ormai il sole dovrebbe essere alto, lo immagino sopra la coltre di nubi lattiginose che “chiamano neve” così dicono i bergamaschi… Ecco ci vorrebbe tanta neve ora. Voglia di bianco, puro e leggero mentre torno invece al racconto dall’inferno.

“Puzzi di fumo, voglio fumare anche io” Non se ne parla proprio andiamo avanti. Il suo sguardo al veleno mi lambisce nuovamente “Ci sono stata sette anni ancora nel villaggio dove sono nata. Un tempo infinito e… buttato, finché casualmente ho saputo che mio padre aveva nascosto una piccola eredità di mio nonno. Non era destinata a mio padre, ma a me! Mi sono fatta coraggio per la prima volta nella mia vita e l’ho voluta lottando contro tutta la famiglia!”. Kadija stringe i pugni verso il soffitto e impreca nella sua lingua, Lathifa non traduce “Con quei soldi ho pensato che
avrei avuto la libertà. Per me libertà voleva dire Italia! Pensavo che venire in Italia mi avrebbe salvato dalla miseria, che avrei trovato un uomo buono, una bella casa e un lavoro… ma non è stato così…”.

“Sono venuta qui al nord con un contratto stagionale, un’amica viveva già qui da anni e mi ha aiutato con tutto, la lingua, la casa, mi ha trovato i primi lavori a casa dei signori. Milano mi ha fatto sempre un po’ paura, piena di tutto, troppo di tutto, tanto rumore, case alte e niente prati, da noi solo prati e poche case. Le case che pulivo erano ricche ma a me pagavano pochi euro per tante ore. Ma ero contenta, ero libera. La prima paga pensavo di essere ricca poi mi sono comprata una pizza e degli assorbenti ed ero già senza nulla, così ho capito che da sola non ce l’avrei mai fatta”.

Kadija fa la baby sitter, assiste gli anziani, fa le pulizie dice che era brava. Lathifa continua a tradurre mentre gli occhi della donna si illuminano per un secondo “Mi piaceva aiuta
riferisce più al suo ex marito e la rabbia che le riempie gli occhi rossi invade la stanza e i miei nervi . Anche quelli di Lathifa pare. Ha un aspetto tremendo. Ho fretta ma le dico di concedersi una pausa e di bere dell’acqua ”.

“Grazie dottore è che non ho dormito tutta notte mio figlio ha avuto la febbre alta… ma questo è l’unico impiego che ho e anche io sono divorziata…s e non lavoro non ce la caviamo io e Kevin, grazie dottore”. Le porgo la bottiglia di minerale pensando che è la prima volta che mi parla di sè.

Kadija si accascia sulla sedia e si prende il capo tra le mani e poi urla scagliando la bottiglia contro il muro. La prendo per le spalle e cerco di calmarla. Arriva un agente alla porta ma gli dico che è tutto a posto. Ma a posto non c’è niente “Scusi signor dottore la mia vita è finita”. Il racconto prosegue con frasi sconnesse tradotte a fatica dall’esausta mediatrice “Non ho mai avuto casa vera, non permesso di soggiorno, dormivo dove mi capitava. In Italia ci sono brave persone dottore, la Caritas un po’ di cibo e qualche soldo l’ho messo da parte coi miei lavori, ero brava mi chiamavano sempre un po’ qui un po’ là… e poi ho incontrato lui …”.

Lui è Hussan Mahsouri trentuno anni malato da tempo di distrofia muscolare. Il mondo è davvero piccolo e il destino beffardo. Hussan era non solo suo connazionale ma pure compaesano. Pareva un segno dal cielo. “Mi voleva bene, credevo che mi voleva bene davvero. Io anche gli volevo bene, lui era così fragile e mi voleva sempre vicino e io mi sentivo forte, finalmente unica. Ci siamo visti prima poco, poi sempre più spesso c’era una bella amicizia e non mi sentivo più sola e straniera, mi sentivo finalmente a casa”.

Il maglioncino infeltrito viene tirato con violenza dalle sue mani impazzite, pare voglia strapparsi la pelle di sotto “Ma era solo un bugiardo, maledetto BUGIARDO!”. Prendo appunti come di nascosto, mi sento un intruso non vorrei ascoltare altro, e invece guardo la delusione del suo viso che anticipa l’orrore che sta per descrivere “Per stare insieme ci vedevamo all’albergo a Martinengo, sempre lo stesso, le stesse facce che ci guardavano come fossimo extraterrestri, due brutti extracomunitari uno sulla sedia a rotelle e una stupida che pagava sempre, una prostituta al contrario!”.

Kadija ride istericamente. Perché a pagare era sempre lei, così hanno testimoniato i proprietari dell’albergo. Hassan pare aspettasse la pensione di invalidità, ma al momento non possedeva un euro. Ma aveva una casa sua e una promessa di matrimonio. Tanto bastava a Kadija ma intanto non un euro a disposizione, ma una casa sì. La casa e la promessa di un matrimonio, di una vita non più nomade di carezze e non più calci nella pancia ma soprattutto nell’anima.

“Quel giorno maledetto non sembrava più lui. Mentre mi spogliavo mi sono accorta che mi frugava nella borsa, che fai gli ho chiesto, i soldi se li vuoi basta che me li chiedi!”. La testa di Kadija torna tra le sue mani tremanti e poi si scuote come per gridare un NO muto e disperato. Lathifa le porge nuovamente dell’acqua ma Kadija la vomita subito sulle mie belle scarpe di camoscio. È il mio turno di dire merda. Lei nemmeno se ne accorge mentre io mi asciugo e lei parla e parla ormai un fiume in piena “NO non potevo… non si fanno quelle cose da pervertiti, MAIALE!”. Disteso con le gambe senza vita ma con la vita tra le gambe Hussan umilia la sua compaesana con richieste sessuali che la spaventano. “Puttana, puttana tu dovrai fare la puttana per me abituati, girati puttana…”.

Il solito rumore del coltello che trancia il collo della bottiglia così che lui ci possa pisciare dentro senza l’umiliazione di farsi trasportare in bagno. Ma stavolta il collo della bottiglia finisce nelle carni di Kadija che urla e scende dal letto inorridita. Lathifa è rossa di vergogna mentre cerca di spiegarmi quello che ascolta. Temo non mi dica nemmeno tutto mentre il volto di Kadija è trasfigurato dai ricordi “Era tutto finito capisci? Non c’era più il sogno, ne il mio amore malato, ne una casa solo un altro bastardo con un coltello e un cazzo in piedi perché gli uomini si eccitano se stai male, bastardiiii”.

Kadija tenta di buttarsi di sotto poi ci ripensa e torna accanto al letto tentando di far ragionare Hassan, ha ancora una speranza spera sia solo preda di una crisi che abbia bevuto. Invece lui la ferisce ma lei riesce a strappargli il coltello e poi il nulla. Ricorda solo se stessa davanti alla reception che grida che è morto, che lui è morto, morto.

Mi hanno detto poi che lei ne ha bevuto il sangue. Un rito antico per portarsi dentro un po’ di lui che non c’è più. Che non c’è mai stato se non nei suoi sogni di rinascita. Ma lei non ricorda o finge di non ricordare di averlo infilzato con quasi trenta affondi nelle gambe, in mezzo alle gambe, nell’addome, nella gola. Dice solo che è morto e che era un bugiardo.

Non la guardo di proposito non voglio che quegli occhi di morte incrocino i miei. Mi sforzo di pensare allo sguardo languido di Zeus e di mettere la parola fine al mio verbale. Dopotutto io sono un dottore, e un uomo. Ma la confessione è toccata a me. Merda.

Kadija in preda a una crisi viene trasportata in in infermeria dove l’aspetta anche il suo avvocato d’ufficio appena nominato. Le somministro dei calmanti e mi preparo ad andare dal Giudice. Prima devo trovare un paio di scarpe pulite.

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