Quando ho letto che Liguori avrebbe suonato nel programma di JazzMi 2017 al Teatro dell’Arte in Triennale ho deciso senza indugio di assistere al concerto.
Sto parlando di Pasquale, novantenne batterista di gran caratura. Pasquale è figlio di Gaetano, uno dei più importanti pianisti italiani. In realtà il concerto era di Gaetano, che si esibiva in trio con Roberto Del Piano al basso e Massimo Pintori alla batteria. Un racconto musicale con l’intento di ripercorre l’avventura di una vita fatta di musica, colonna sonora del suo impegno politico, e delle sue passioni.
Conosco e stimo Gaetano, che intervistai pubblicamente un paio di anni fa in occasione della presentazione a Bergamo della bella autobiografia “Confesso che ho suonato”.
Però non è di lui che voglio raccontare, ma di Pasquale, suo padre, classe 1927, chiamato sul palcoscenico nella seconda parte del concerto. Lì per lì ho pensato che la sua fosse un’apparizione d’effetto ma sporadica, un fuoco d’artificio per finire in bellezza lo spettacolo. In realtà è come se fosse cominciato un secondo concerto con papà Pasquale che ha preso lo scettro e non ha esitato a occupare in modo totale la scena. Una grinta e una resistenza inimmaginabile a quell’età, che hanno messo a dura prova gli altri musicisti.
C’era anche Gaetano certo, sulla sponda opposta della pedana, che duellava col padre senza neppure inviargli uno sguardo d’intesa. Ogni volta che lo spettacolo pareva terminato, ricominciava daccapo con il vecchio Pasquale che decollava di nuovo agitando cassa, rullanti, timpani e piatti come un ventenne, da solo o affiancato da Pintori in un trascinante duello di bacchette e pedali. Un’emozione pura vedere i due Liguori suonare alcuni brani dal loro disco “Gaetano e Lino Liguori”, Premio della Critica 1978, così distanti eppure così vicini.
La loro storia racconta di una famiglia napoletana segnata dalla batteria e immigrata a Milano per amore della batteria.
La classica famiglia del sud – padre, madre, nonna materna e due figli – che trova casa al Corvetto, nel pieno della campagna resa fertile dai frati certosini di Chiaravalle. Obiettivo del trasferimento era la ricerca di opportunità di lavoro per il padre Pasquale, musicista, batterista d’avanguardia già affermato a Napoli, dove però non si trovava ombra di orchestra che gli garantisse un buon ingaggio. La mamma di Pasquale Liguori, nonna di Gaetano, di cognome faceva Di Giacomo. La famiglia Di Giacomo annoverava tra gli altri personaggi illustri come un monsignore teologo e un grande poeta, Salvatore Di Giacomo. Ma anche due straordinari batteristi, Peppino e Gegè, quest’ultimo noto ai molti perché membro del trio di Renato Carosone che fece la storia della musica leggera in Italia degli anni cinquanta.
Con il matrimonio Pasquale entrò a pieno titolo tra i batteristi di questa pittoresca famiglia. Cominciò presto a battere piatti e grancassa. Dopo una breve periodo nell’Arma dei Carabinieri alle prese col brigantaggio siciliano, Pasquale decise di vivere solo di batteria, nonostante le perplessità dei congiunti. Riprese a suonare ed ebbe ingaggi con le migliori orchestre dell’epoca, tra le quali quella di Marino Marini. Era consapevole che “con il jazz non si vive”, un mantra che ha ripetuto sino all’ossessione a Gaetano, ma studiò la musica afro-americana con tale profitto che venne chiamato da Arrigo Polillo al primo festival di San Remo nel 1956.
Il periodo era favorevole, il boom economico creava molte opportunità, soprattutto a Milano. Ovunque ci fosse uno spazio si suonava, sale da ballo, caffè, balere all’aperto, night. In galleria del Corso, dove c’era la più ampia concentrazione di editori musicali, si formavano orchestre per singole serate oppure per crociere fino ai Caraibi che potevano durare anche mesi. Pasquale si dava molto da fare e divenne uno dei più affermati batteristi della scena discografica milanese.
Il primo ingaggio a Milano per Pasquale fu con l’orchestra Pizzigoni, in cui militava un giovane cantante pugliese, Nicola Arigliano. Suonavano all’Embassy in galleria Puccini in corso Buenos Aires. Fu in quel periodo che Pasquale invitò il figlio, ancora ragazzo, a suonare la sua batteria. La prova funzionò al punto che Gaetano decise che da grande avrebbe suonato anche lui la batteria, per poi abbandonarla poco dopo per rispondere al fascino irresistibile del pianoforte, amore che sigillò iscrivendosi nel 63 al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.
Papà Pasquale è sempre pieno di consigli per il figlio che cerca un ruolo originale nel difficile mondo del jazz, e sovente le sue opinioni sono graffianti e contrarie al pensiero e alle aspirazioni di Gaetano.
È Gaetano ad affermare nella sua biografia “devo molto a mio padre, soprattutto perché mi ha trasmesso una professionalità e un’onestà intellettuale ai limiti dell’autolesionismo” ma anche a chiarire “un padre musicista e un figlio musicista è facile che la pensino in modo diverso. Mio padre, così importante nella mia formazione, è sempre stato il mio critico più severo. Un pessimista a oltranza. Non c’è stato momento in cui non abbia criticato le mie scelte musicali e non solo quelle.. Io invece ero sempre ottimista e un po’ spaccone. Il suo modo di ragionare sempre rigoroso e la sua perenne insoddisfazione mi hanno formato – è vero – ma mi sono costate molta fatica. Non ho nulla da recriminare, ma un padre ipercritico e pessimista è stato un fardello piuttosto gravoso da portare”.
Vederli suonare insieme, così vicini e così lontani, è stato un bagno di puro piacere. Sono certo di aver notato che papà Pasquale mette ancora soggezione a Gaetano, che a tratti sembra adombrarsi. Il concerto è stato seducente, bella musica ben eseguita, ma mi hanno incantato soprattutto la freschezza e l’abilità di questo giovane novantenne che per novanta minuti di percussioni ininterrotte non ha mai smesso di divertirsi.
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