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Il boss

Morto Totò Riina, il capo di Cosa Nostra

Per lui una fine dignitosa in carcere, coi parenti stretti che l'hanno potuto salutare, quella fine che Falcone e Borsellino e le sue tantissime vittime non hanno avuto.

Ha avuto una fine dignitosa, coi parenti stretti che hanno potuto salutarlo, il capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina, morto nella notte tra giovedì e venerdì in carcere a 87 anni. Una fine che non ha potuto avere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e come loro le tantissime vittime del re assoluto dei corleonesi, detenuto al 416bis, per scontare 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi.

Con la sua morte si apre la corsa alla successione nella quale non sembra stagliarsi il profilo del boss latitante Matteo Messina Denaro, nonostante ci sia chi, tra gli analisti più che tra investigatori e inquirenti, ne è convinto.

strage capaci falcone

La carriera criminale di Riina – detto u curtu per la sua statura o la belva per la sua crudeltà senza limiti – è stata un crescendo mortale. Nato nel 1930, a 19 anni il carcere, poi la strage di Via Lazio del 10 dicembre 1969 e poi via via alleanze sempre più strette, non solo all’interno di Cosa nostra ma anche con la ‘ndrangheta e la camorra. Grazie al boss Luciano Liggio, che lo allevò come un figlio pronto a prenderne un giorno il posto, Riina imparò presto che i matrimoni di interessi con Calabria e Campania, nel nome degli affari milionari da spartirsi, potevano tornare utili. Così si legò a don Mico Tripodo, vecchio capobastone della ‘ndrangheta di cui divenne compare d’anello e ai fratelli camorristi Nuvoletta che erano formalmente affiliati a Cosa nostra.
Nel 1981 lui e i suoi uomini versarono e fecero versare fiumi di sangue con centinaia di morti nella seconda guerra di mafia dalla quale uscì vincitore tanto da imporsi, nel 1982, come capo della “cupola”.

Questo curriculum sintetico si arricchisce di omicidi, intimidazioni, processi, condanne e persino assoluzioni, tutto rigorosamente in latitanza. Quando, il 15 gennaio 1993, giunsero le manette a Totò Riina, provocarono un terremoto che, come ricordano Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia nella richiesta di archiviazione al Gip di Palermo dell’indagine “Sistemi criminali”, determinarono la frammentazione degli assetti di potere interni all’organizzazione e lo scompaginamento di una direzione unitaria.

Mai avuto un cenno di pentimento: solo tre anni fa, dal carcere parlando con un co-detenuto, si vantava dell’omicidio di Falcone e continuava a minacciare di morte i magistrati.

 

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