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Franco bertè

Il medico amico dei detenuti: “Non numeri ma persone, per questo scrivo le loro storie” video

Il direttore sanitario del carcere di Bergamo ha da poco scritto il suo secondo libro. L'idea per il titolo ("I passi perduti") gliel'ha data un detenuto

L’idea per il titolo del suo libro gliel’ha data un detenuto. Anzi, “un ospite”, come lo definisce lui. In questo caso un regista cinematografico residente in Bulgaria finito in carcere per circostanze un poco rocambolesche. “Quando è atterrato all’aeroporto di Orio al Serio, dove avrebbe dovuto prendere un volo per assistere a una prima a Berlino, si è sentito dire dagli agenti che c’era un problema: doveva scontare una condanna per mancata contribuzione”. L’uomo non aveva pagato i primi mesi di alimenti alla moglie e ai figli, anni e anni prima: “Lo arrestarono ma al momento non sapeva nemmeno il perché, visto che non era al corrente della condanna. All’inizio feci fatica a credergli, poi scoprii che aveva addirittura girato un film con Gerard Depardieu”.

I passi perduti” è il titolo che quel detenuto gli suggerì: “Sono quelli persi per sempre – mi disse – quelli che ho buttato camminando come un criceto in gabbia, inutilmente, in tondo, senza meta. Sono i passi di chi sta qui dentro”. “Qui” è il carcere, precisamente quello di Bergamo, dove Franco Berté (nella foto a sinistra), 58 anni, di Crotone, ricopre oggi la carica di dirigente sanitario. Laureato in medicina e chirurgia, dal 1996 al 2010 lo è stato per la casa circondariale di Monza. È stato inoltre segretario regionale dei medici penitenziari. Nel 2006 ha pubblicato il suo primo libro “Nuovi giunti”: storie vere che raccontano il carcere con gli occhi di chi ne ha appena varcato la soglia. Nel 2016 è stata invece la volta de “I passi perduti”, seconda opera pubblicata per Cairo.

Dottor Berté, a ben guardare il suo libro è pieno di aneddoti come questo.

Quella del regista sembra la trama di un film horror. Passare dal red carpet a una cella divisa con cinque energumeni sudati non deve essere stato facile. Ma il carcere è così… diventa inevitabilmente un contenitore di storie, spesso assurde.

Ce ne racconti qualcuna.

Sempre qui a Bergamo ho conosciuto un uomo che stava per uscire dopo aver scontato una lunga condanna. Aveva compiuto un furto, ma nessuno aveva mai trovato il bottino. Mi disse che finalmente dopo tanti anni di attesa si sarebbe goduto il “suo” miliardo. Ironia della sorte, è morto non appena varcata la soglia del cancello, stroncato da un infarto.

Se non altro si doveva fidare molto di lei…

Sono il loro medico: la fiducia sta alla base. Mi piace pensare ai detenuti più come ospiti che come reclusi, anche se c’è tutta una filosofia carceraria dietro alle gerarchie. Molti di loro non ti considerano un’autorità sanitaria, ma un servizio dovuto. E inevitabilmente impari a lavorare anche di psicologia.

Leggendo il suo libro si scopre che alcuni di questi rapporti con i detenuti sono poi diventati amicizie vere e proprie, come quella con “Corrado”.

Lui aveva avuto rapporti stretti con uno dei boss della criminalità organizzata, ma da quel giro voleva andarsene. Scontata la pena esce dal carcere e mi dice: “Se tra una settimana non sarò di ritorno…”. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Nessuno che aveva conosciuto ce l’aveva fatta ad uscire, se non da morto…

E come è andata a finire?

L’ho rivisto dopo due settimane. Così, all’improvviso, fuori da un teatro. Ce l’aveva fatta. Allora ho capito che non era il carcere a tenerlo in prigione… Di lui avevo senz’altro conosciuto la parte nobile, il pentimento, l’uomo che avrebbe voluto essere e che sognava di diventare, anche fuori.

Vi frequentate ancora oggi?

Certamente.

Mi perdoni, ma durante quelle due settimane non ha pensato che forse non conviene fare amicizia con i detenuti?

Sì, ma non svolgerei al meglio il mio lavoro. Come scrivo nel libro, l’ascolto per un detenuto può segnare la differenza tra la disperazione e la speranza. Tutt’oggi mantengo vivi molti di quei rapporti.

Del resto, lei insiste su un concetto che in molti non devono dare per scontato: dietro al detenuto non c’è soltanto il suo ‘fascicolo’.

Le storie contenute nel libro credo lo testimonino.

Il fine di questa sua pubblicazione, tuttavia, non è solo quello di raccontare storie.

No, e vi spiego il perché. In Italia abbiamo circa sessantamila detenuti, il costo di un singolo ammonta a trecento euro al giorno e moltiplicato per il totale fa una cifra esorbitante. Il carcere, più di ogni altra cosa, deve servire a rieducare e reinserire, ma per essere reinserito un detenuto deve lavorare. E questo, oggi, non avviene.

A Bergamo com’è la situazione da questo punto di vista?

Su 550 detenuti lavorano al massimo in sessanta. Ma spesso si tratta di lavori banali. C’è chi sta in pizzeria, dove preparano il pane, i dolci e i biscotti; ma poi c’è chi fa lo scopino della cella, del corridoio o dell’infermeria, e chi il lavorante che passa a prendere gli ordini dai detenuti per quel che vogliono comprare. E ancora il porta vitto che gira a consegnare i pasti. Ma non c’è un lavoro che possa dare la possibilità di reinserirli in società per un futuro migliore.

Cosa auspica?

Che qualcuno investa nel carcere, magari qualche imprenditore lungimirante. Qualsiasi iniziativa può essere valida. Un po’ di anni fa, quando ci fu un indulto, in un carcere siciliano era stata costruita una serra per la floricoltura. I detenuti lavoravano e guadagnavano lì, e quasi non volevano più uscire perché fuori non avrebbero avuto il lavoro. Oggi, invece, alcuni carcerati a fine pena non pensano a smettere di delinquere. Anzi, programmano il rientro.

Il carcere, si sa, può anche essere luogo di radicalizzazione violenta e proselitismo. Con il patto recentemente siglato da Palazzo Frizzoni con le comunità musulmane (leggi qui), gli Imam potranno entrare in via Gleno e parlare ai detenuti. L’obiettivo è anche quello di intercettare eventuali processi di questo tipo. Cosa ne pensa?

In ogni carcere d’Italia c’è già un referente nominato dal Ministero della Giustizia che tiene attentamente monitorate questo tipo di problematiche (a Bergamo è il Commissario Daniele Alborghetti, ndr). Questo può essere un ulteriore strumento di prevenzione, ma combattere questo tipo di situazioni non è affatto semplice.

In via Gleno avrà anche avuto modo di conoscere Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello condannato all’ergastolo per l’omicidio della piccola Yara. Che idea si è fatto di lui?

Penso sia una delle poche volte in vita mia dove non sono riuscito a farmi un’idea. Ma di questo argomento non sono autorizzato a parlare, c’è ancora un processo in corso.

Ultima domanda. Nel suo libro, ad un certo punto, ci si imbatte in questa frase: “La verità non è cosa per gli uomini”. Colpisce molto, specie se inserita in un contesto come quello del carcere, dove è proprio un giudizio a segnare la vita delle persone.

Vede, c’è chi uccide per motivi religiosi e crede di essere nel giusto; chi uccide ma non ricorda nemmeno di averlo fatto. Esistono persone che non conservano il momento in cui hanno impugnato il coltello e l’hanno conficcato nel petto di una persona. Ricordano l’emozione, la rabbia, la paura… ma non l’azione. Forse esistono più verità o, semplicemente, ognuno, riporta la sua.

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