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Il modello

“Il dialetto, i mini vizi, le coccole: per gli anziani malati della Palazzolo l’umanità prima di tutto”

Una singolarizzazione delle cure e delle terapie: ne parlano il fisiatra Bernardini e la caposala Begnigna del dipartimento riabilitativo della Casa di Cura Palazzolo di Bergamo.

Un approccio più umano, familiarizzato. E una singolarizzazione delle cure e delle terapie. È quello che contraddistingue il metodo di lavoro del dipartimento riabilitativo della Casa di Cura Palazzolo di via San Bernardino a Bergamo. Sono all’incirca 50 le persone tra medici e infermieri che ve ne fanno parte: “Questo perché ogni paziente parla la sua lingua – spiega la dottoressa Silvia Begnigna, caposala del reparto -. Ci consideriamo degli interpreti, dei mediatori che cercano di farsi carico di tutte le richieste del paziente”.

Lì vengono accolti soprattutto anziani, persone con patologie neurologiche quali il parkinson, esiti di ischemia celebrale, esiti fratturativi, esiti di polineuropatie, ma anche semplici traumi e cadute che per un anziano possono diventare un ostacolo difficile da superare, in alcuni casi insormontabile.

“L’obiettivo è quello di creare una sanità su misura ai bisogni delle persone”, continua il dottor Guido Bernardini, medico fisiatra. Un concetto per nulla scontato: “Accanto alla ricerca nelle scienze sanitarie, crediamo sia nostro compito costruire percorsi di accoglienza umana per curare in modo globale, personalizzato e di promozione umana”.

Una filosofia, questa, che da sempre contraddistingue l’approccio del reparto riabilitativo, come della casa di cura bergamasca gestita dalle suore Poverelle: “Questo ci permette di avere una marcia in più – continua la dottoressa Begnigna -. Se in un ospedale i pazienti vengono tutti trattati allo stesso modo, inevitabilmente possono sorgere dei problemi. Con il nostro metodo, ogni malato viene chiamato per nome e cognome, e in qualche modo questo contribuisce a farlo sentire a casa”.

Piccole attenzioni che spesso vanno oltre quel che viene normalmente richiesto sul posto di lavoro: “Ci capita di parlare con i pazienti in dialetto bergamasco, organizzare tombolate di reparto e comprare loro dei vestiti nuovi. Cerchiamo persino di accontentarli per quanto riguarda l’alimentazione. A volte, usciamo persino a fare la spesa e portiamo loro quel che ci chiedono”.

Il rischio è che con la lungodegenza dei pazienti ricoverati ci si possa legare a livello affettivo: “Il rischio esiste – conclude il dottor Bernardini -. Ragion per cui bisogna sempre avere ben chiaro il concetto di limite, senza per questo mettere in secondo piano quello di responsabilità. Ogni buon medico ha il dovere di garantire un’esperienza di cura all’insegna dell’accoglienza e del pieno rispetto dell’individuo”.

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