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La recensione

Civiltà Perduta: oltre la civiltà, va perduto anche lo spettatore

Titolo: Civiltà Perduta (o.v. The Lost City of Z.)
Regia: James Gray
Attori: Charlie Hunnam, Sienna Miller, Robert Pattinson,
Durata: 141 minuti
Giudizio: **

Basato sull’omonimo romanzo storico scritto da David Grann, Civiltà Perduta è il racconto, ambientato nei primi anni del ‘900, di un uomo disposto a tutto per raggiungere la gloria e della sua spedizione all’interno della giungla amazzonica. Il tutto, però, molto lontano dall’immaginario del classico film d’avventura alla “Indiana Jones”. Viene indagato, più che l’avventura in sé, il segno che la giungla lascia nella mente e nel cuore del protagonista, che ne diventa man mano sempre più ossessionato.

Il maggiore Percy Fawcett, interpretato da Charlie Hunnam, è un abile soldato dell’esercito inglese che porta su di sé il peso di un passato oscuro, che resta sconosciuto allo spettatore, che ha infangato il suo nome e ha lasciato la sua casacca spoglia di ogni grado. Tuttavia, si tratta di un uomo assai risoluto e coraggioso, i cui meriti sono innegabili. È appunto per questo motivo che la Geographical Royal Society decide di affidargli una missione: recarsi in Amazzonia (al confine tra Bolivia e Brasile) per mappare territori rimasti fino a quel momento inesplorati. Fawcett, inizialmente non del tutto entusiasta, decide di accettare l’incarico nella speranza di poter riaccreditare il suo nome. La moglie Nina, interpretata squisitamente dalla bellissima Sienna Miller, è disposta a sobbarcarsi il peso di dover badare da sola a una famiglia in crescita pur di sostenere il marito, andando così contro le regole di una società, come quella vittoriana degli inizi del ‘900, che vedeva la donna come un elemento debole e strettamente dipendente dal marito. Il primo viaggio in Amazzonia, insieme a quello che diventerà il suo fedele compagno di viaggio, il Signor Henry Costin (interpretato da Robert Pattinson), seppur con grandi difficoltà, risulta in un successo. Acclamati come degli eroi, Fawcett e Costin raccontano di aver trovato le evidenti tracce di una civiltà perduta, fatta “d’oro e di mais”, e di voler tornare al più presto in Amazzonia per continuare le ricerche. Fiduciosi e carichi di un nuovo slancio alla scoperta di El Dorado, i due compari tornano nuovamente in Amazzonia ma questa volta, a causa di un “peso di troppo” (letteralmente e metaforicamente), sono costretti a concludere la missione e a tornare in Inghilterra a mani vuote. Tutto questo non fa altro che aumentare la frustrazione del protagonista e, tra Fawcett e la giungla, è solo l’inizio di una lunghissima storia d’amore che, interrotta bruscamente dalla chiamata alle armi in seguito allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, sfocerà successivamente in ossessione. Un’ossessione che avrà la meglio non solo su Fawcett stesso, ma anche sul figlio Jack, affetto come il padre da “mal d’Amazzonia”. Alla fine la giungla, crudele e selvaggia, li ingloberà per sempre facendoli diventare parte di sé.

È senza dubbio un film tecnicamente fatto bene: molto piacevole il montaggio delle immagini che si richiamano a vicenda per analogia, come ad esempio la goccia di whiskey che scorre verso lo scarico del lavandino e il treno che “scorre” sui binari; anche se alla lunga risulta un po’ forzatamente retorico. Tuttavia, l’ho trovato decisamente troppo lungo, quasi al limite dell’insofferenza, dovuta forse al fatto che, a conti fatti, non succede niente. Mancano picchi di azione emotiva che tengano lo spettatore vigile e agganciato alla storia. Unica vera gioia del film è Sienna Miller, che ha interpretato il ruolo difficile e importantissimo di una moglie e madre, forse fin troppo forte, anni luce avanti rispetto alla società in cui vive, disposta a venire a patti con le ambizioni del marito, senza però rinunciare alle proprie. Una forza della natura, una roccia, a cui si aggrappa non solo il protagonista, ma che diventa punto di forza a sostegno di tutto il film.

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