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L'intervista

Parole O_Stili, Gori: “Educazione, diritto e tecnologia: così si batte l’odio sul Web”

Il Sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, partecipa a Trieste a Parole O_Stili, dove coordinerà il panel "Politica e Legge".

Il Sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, partecipa sabato 18 febbraio a Trieste a Parole O_Stili, dove coordinerà il panel “Politica e Legge” (Guarda qui). 

A questo punto chiedo a lei, signor Zuckerberg: da che parte sta Facebook, in questa battaglia di civiltà.

Si conclude cosi la lettera scritta in data 13 febbraio da Laura Boldrini, presidente della Camera dei Deputati, e indirizzata all’amministratore delegato, nonché fondatore, di Facebook Mark Zuckerberg. La lettera vuole far luce su un problema che tutti si stanno trovando ad affrontare in un modo o nell’altro: la diffusione di contenuti estremisti, violenti, messaggi di odio e discriminazione sul web. La presidente della Camera anticipa con questa lettera quello che è il tema della due giorni che si sta tenendo a Trieste questo weekend (17 e 18 febbraio), dedicata proprio a questo recente fenomeno, spesso sottovalutato.
La lettera del presidente della Camera rappresenta solo l’espressione di un sentimento sempre più condiviso da una classe politica, che sta pian piano prendendo coscienza dei rischi che il mondo social rappresenta, per la gente comune, e per loro stessi.
Per capire meglio cosa pensassero i politici riguardo a questo spinoso tema, ho intervistato il sindaco Giorgio Gori, che ha coordinato il panel Giornalismo e Legge al festival di Trieste.

Sindaco, innanzitutto potrebbe illustrarci i temi che saranno affrontati nel corso del Panel da lei coordinato?
“Voi di Bergamonews conoscete bene l’iniziativa di Trieste, che vede più di 300 persone tra giornalisti, opinionisti, pensatori e imprenditori mobilitati, riuniti per cercare di mettere un argine, o quantomeno fare una riflessione, su un fenomeno che negli ultimi mesi è deflagrato, che ha portato il linguaggio sui social network a livelli di aggressività, un po’ preoccupanti.
Per quanto riguarda il panel Giornalismo e Legge, che mi hanno chiesto di coordinare, io cercherò di ragionare su responsabilità e possibili soluzioni.
La politica è sicuramente al centro di questo fenomeno: i politici sono aggrediti, minacciati e intimiditi. Persino io, che non ho certamente una visibilità nazionale, ho più volte constatato come le comunicazioni sui Social diventassero aggressive e ingestibili.
Perché succede? A mio parere è un po’ semplicistico attribuire la colpa solo alla rete. Questa è la prima riflessione che voglio fare: il tema da affrontare è la violenza che, fuori dalla rete, ha preso piede, e che la rete semplicemente rivela.
A questo proposito, i primi responsabili sono proprio i politici, perché politica e informazione costituiscono dei modelli che, in questi ultimi anni, hanno conosciuto un forte innalzamento del livello di aggressività. Politici della Prima repubblica mai e poi mai avrebbero recato offese personali o utilizzato parolacce rivolgendosi ad altri esponenti. Di conseguenza, se i politici utilizzano questo tipo di linguaggio, e cosi gli organi d’informazione, è difficile chiedere alle persone comuni di essere educati, gentili e moderati.
Il linguaggio si è imbarbarito innanzitutto nel mondo offline. Successivamente, la rete ci mette del suo, soprattutto per alcune sue caratteristiche, una in particolare: la rete tende a portare gli individui a confrontarsi non tanto con soggetti che sfidano le loro opinioni, ma con un reticolo di persone che tendenzialmente confermano l’opinione dell’individuo che ne è al centro. Si tratta di una rete di persone che ci somigliano e che ci gratificano. Questo crea un effetto branco, che mette anche le persone più miti nella condizione di emulare comportamenti aggressivi, come d’altronde si verifica anche nella realtà. Questa caratteristica del web, che non è ancora stata posta al centro della riflessione, sfida la democrazia perché pone le persone nella condizione di ricevere informazioni che confermano solo le proprie opinioni.
Quindi, in sintesi, questi sono i due temi fondamentali: la responsabilità del fenomeno che deriva prima di tutto dalla realtà e poi dalla rete e le caratteristiche del web che accentuano questo fenomeno”.

Quali sono i rimedi al fenomeno che nel panel saranno discussi?
“Nessuno ha la bacchetta magica, ma è già interessante che l’Unione Europea abbia attivato un confronto su questo tema, da cui nasce l’iniziativa del Parlamento europeo e della Presidente Boldrini. È importante poi che un confronto sia stato impostato con le grandi del Web, come Google Facebook e Twitter, per definire le linee guida che possano in qualche modo condizionare le policies di questi gruppi.
Da questo punto di vista l’Europa è più avanti degli Stati Uniti, che, in nome della libertà d‘espressione, sono più tolleranti. Io sposo l’idea europea: ritengo che non si tratti di libertà d’espressione, ma di vivibilità del confronto in rete.
A questo confronto si possono poi aggiungere educazione, diritto e tecnologia. Con educazione s’intende prima di tutto quella nella dimensione offline, e poi in rete. Mi ha molto colpito un articolo che riportava una statistica, secondo la quale un numero significativo di ragazzi consideri normale che in rete ci si esprima cosi. Questo dimostra come il livello di tolleranza si sia spostato, ci si è assuefatti.
Il tema del diritto che spiega il titolo del panel Giornalismo e legge, deve poi essere affrontato: servono leggi apposta? Internet è sufficientemente regolamentato?
Infine con tecnologia s’intende l’esistenza di dispositivi semantici utili per individuare contenuti d odio, violenza, che io ritengo possano essere attivati dalle aziende del tech, attraverso team che uniscano tecnologia a sensibilità umana”.

Recentemente la diffusione di fake news è stata definita dal Presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella una delle minacce più incombenti alla democrazia: sarà affrontato anche il tema delle bufale a Trieste?
“L’incontro sarà incentrato sul tema dell’hate speech, ma sicuramente i due temi sono profondamente legati, poiché l’uno alimenta l’altro. All’indomani della Brexit, io ho alimentato un dibattito vivace, quando condivisi un articolo di un giornale americano, che sostanzialmente sosteneva che laddove le democrazie non sono informate rischiano di essere delle false democrazie. Personalmente, sono abbastanza d’accordo perché ritengo che il presupposto per la libertà d’espressione democratica sia che le persone debbano essere messe nella condizione di sapere, in base ad informazioni corrette.
L’impressione che ho è che oggi circolino molte informazioni distorte: di nuovo ci si chiede di chi sia la responsabilità. Anche in questo caso la risposta è: di chi opera fuori dalla rete. La stessa stampa nazionale ha un livello di verifica a mio giudizio insufficiente. Certamente è molto costoso fare un giornalismo più rigoroso e verificare, ne sono consapevole, tuttavia se la stampa ha quel tipo di deriva, difficile pretendere che la rete sia un luogo di assoluta verità”.

Il web poteva presentarsi come un modo per i politici di avvicinarsi al proprio elettorato, e ridurre quella distanza e sfiducia che esiste tra mondo politico e mondo reale. L’esempio di Trump dimostra che a volte i Social possono essere addirittura determinanti nella vittoria di un candidato. Eppure, per altri politici il web è diventato troppo aggressivo, spingendo alcune a chiedersi se la soluzione sia andarsene dai social. Quale può essere la via di mezzo?
“Io non credo sia giusto scappare, anche se è vero che quando ti trovi esposto a dosi consistenti di odio, ti viene voglia di andare da un’altra parte. Passa la voglia di interagire: io stesso, quando vedo che la persona che ho di fronte non è in alcun modo disponibile al dialogo, ma solo ad una sequenza di insulti, preferisco evitare di rispondere.
Tuttavia, è chiaro che del web oggi non si possa fare a meno: la relazione con i cittadini fa parte anche web, sta in larga misura li. Io non ho mai pensato sia sufficiente stare sulla rete e non coltivare relazioni fisiche e più tradizionali, però non credo che chi fa il nostro mestiere, possa chiamarsi fuori”.

C’è necessità di una sorta di educazione all’utilizzo critico del web secondo lei? Educazione, sia in termini di comportamento ed espressione, che in termini di apprendimento a distinguere le notizie vere da quelle false.
“Certamente. A questo proposito, c’è questo decalogo che viene proprio presentato in questi giorni a Trieste, che io condivido, riguardo all’utilizzo del Web. C’è un punto che io trovo fondamentale, che sostiene che ormai, quando si condivide qualcosa sul web, ci si assume la responsabilità che avrebbe un direttore di giornale quando decide di mettere in pagina un pezzo. Bisogna pensarci bene, accertare che quella cosa abbia un fondamento e solo allora ha senso condividerla.
Non so quanti lo facciano con questo spirito critico, e per questo è giusto proporlo.

Il Festival di Trieste va sicuramente nella giusta direzione: prendere coscienza dell’esistenza di un problema urgente, e proporne soluzioni e rimedi. Riportare quei valori di rispetto, civiltà e educazione, nella realtà e conseguentemente sul web. Forse, tra un po’ di tempo, potremo cancellare dal nostro dizionario, quel geniale neologismo ideato dal direttore Enrico Mentana, il webete. Grazie alle iniziative come quella di Trieste, potremo dire: meno webeti, più webeducati”.

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