Pubblichiamo il discorso integrale che il Sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha tenuto nella mattina di sabato 10 dicembre in Vaticano, durante “Europe: refugees are our brothers and sisters”. Un focus organizzato dalla Santa Sede sul tema dell’immigrazione in occasione della Giornata Mondiale dei Diritti umani.
“Alla fine del 2016 saranno circa 175.000, il 14% in più rispetto al 2015, i migranti approdati sulle coste italiane dopo aver affrontato la traversata del Mediterraneo. Si tratta di un fenomeno strutturale e che non può più essere affrontato con gli strumenti del passato.
Ovviamente la meta dei migranti, in larga misura provenienti dall’Africa sub-sahariana, non è l’Italia, bensì l’Europa nel suo complesso. Ed europea, ragionevolmente, dovrebbe essere la risposta ad una sfida di tale portata. Proprio su questo fronte, purtroppo, osserviamo invece tutti i limiti e le fragilità della principale istituzione del Vecchio continente, l’Unione Europea.
Lo scorso settembre i Paesi membri si erano accordati per dare esecuzione ad un Piano di redistribuzione dei migranti, basato su una previsione di ricollocamenti pro-quota.
Sappiamo purtroppo che quel progetto è miseramente fallito. Sui 160 mila migranti che avrebbero dovuto essere “ricollocati” per alleggerire il fardello di Italia e Grecia soltanto 5 mila lo sono stati davvero. Ci si è preoccupati di bloccare la rotta dei Balcani, pagando profumatamente la Turchia perché tenesse bloccati sul suo suolo oltre tre milioni di rifugiati. Dopodiché ci si è girati dall’altra parte.
Basta guardarsi intorno per capire quanto l’atteggiamento verso i migranti sia diventato uniforme. Dove le posizioni anti-migranti non sono già consolidate (come nelle nazioni dell’Est europeo) le scadenze elettorali tendono ad imprimere una torsione di identico segno anche ai Paesi che in precedenza si erano dimostrati disponibili all’accoglienza.
L’Italia, come la Grecia, non ha molti margini di manovra. Perché le sue coste sono bagnate da un mare caldo e spesso tranquillo come il Mediterraneo, e perché dall’altra parte — a poche miglia — c’è l’Africa, con le sue tragedie, le sue guerre, le sue dittature, le sue siccità, la sua endemica miseria, accompagnate da una costante espansione demografica.
La geografia pone l’Italia di fronte ad un bivio: o si soccorrono i migranti o li si abbandona alla morte in mare. Un Paese civile di fronte a questa scelta non ha dubbi, e l’Italia non ha avuto tentennamenti. Io sono fiero che sia stato così, anche se non è costato poco. In molti — come potete immaginare — contestano questa decisione, proponendo le soluzioni più fantasiose. C’è chi sostiene il modello australiano (senza considerare le caratteristiche ben diverse delle nostre isole) e chi vorrebbe attuato un blocco navale (dimenticando che il diritto internazionale lo qualificherebbe come atto di guerra, e che per essere efficace richiederebbe un’occupazione militare delle coste e dei porti libici, in piena guerra civile).
L’Italia fin qui ha fatto la sua parte. Ha fatto più della sua parte, in nome di valori umani che non consentono deroghe. Del resto furono ben 23 milioni gli italiani che a cavallo tra il XIX° e il XX° secolo lasciarono il Paese, fuggendo dalla miseria alla ricerca di un futuro migliore. Oggi li chiameremmo migranti economici…
Non solo: l’Italia ha cercato negli ultimi mesi di coinvolgere i partner europei intorno ad una proposta — il famoso Migration Compact — che tra le sue premesse ha il riconoscimento del carattere strutturale del fenomeno migratorio e la necessità di interagire con i Paesi africani di origine o transito dei flussi di migranti.
L’obiettivo è chiaro: offrire a questi Paesi investimenti finalizzati allo sviluppo in cambio di una serie di azioni finalizzate ad un più efficace controllo delle frontiere, alla riduzione dei flussi illegali, alla gestione in loco dello screening dei titoli di effettiva protezione internazionale, alla cooperazione in materia di rimpatri/riammissioni e al rafforzamento del contrasto al traffico di esseri umani.
La proposta, che prevede l’emissione di eurobond per finanziare le politiche migratorie europee, è stata fin qui recepita solo a parole, e nella sostanza snobbata, anche per l’esplicita opposizione di alcuni Paesi riguardo agli strumenti di finanziamento.
Io credo fermamente che la proposta individui la strada giusta, ossia quella di investire sul miglioramento delle condizioni economiche dei Paesi da cui si muovono i migranti, ma bisogna essere consapevoli che nel migliore dei casi per ottenere un risultato apprezzabile ci vorranno molti anni.
Abbiamo di fronte un problema di grande complessità, questo è chiaro, anche per i riflessi che visibilmente produce sugli assetti delle nostre democrazie, riflessi politici che rischiano di favorire i movimenti più reazionari e di mettere in discussione la tenuta stessa dell’Unione Europea.
Proprio per questo appare sempre più necessario superare la fase dell’emergenza e approdare ad una gestione più ordinata e strategica. A questo fine servirebbe un rafforzamento della solidarietà tra gli Stati membri. Purtroppo sembra accadere il contrario, e nonostante le iniziative della Commissione e del Consiglio dell’Unione negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un generale ripiego verso posizioni di chiusura e di rifiuto a condividere gli oneri e la responsabilità di questa sfida epocale.
L’Italia tuttavia non rinuncerà a sollecitare una risposta matura, coesa e lungimirante. Vogliamo un’Europa sicura ma aperta, libera dalle paure, rispettosa delle diversità e solidale nei confronti di chi soffre. Nel rispondere alla sfida epocale che le migrazioni ci pongono davanti sentiamo altresì la responsabilità di trasformare questi valori in scelte politiche e amministrative concrete. Tra queste, l’impegno per realizzare corridoi umanitari europei che permettano a chi fugge di raggiungere i nostri territori senza rischiare la vita e senza arricchire le reti di trafficanti di uomini, ben sapendo che il 98% delle persone in fuga da emergenze umanitarie è accolto oggi fuori dai confini dell’Unione europea.
Nel frattempo siamo però nella necessità — e diventa qui più rilevante il punto di vista dei territori e dei loro sindaci — di organizzare in modo più efficace il fronte interno, a sua volta — per quanto riguarda il nostro Paese — non privo di criticità. Nei mesi scorsi più voci, tra cui la mia, si sono levate con forza a sollecitare un Piano nazionale di accoglienza e integrazione dei migranti. La situazione nelle città italiane è infatti sempre più difficile.
Fino ad oggi abbiamo affrontato la questione come un’emergenza: non lo è. Siamo di fronte ad un fenomeno di lunga durata, mosso da variabili (conflitti locali, povertà estrema e boom demografico dei Paesi d’origine) che nei prossimi anni non smetteranno esercitare la loro spinta.
Per parecchio tempo siamo stati un luogo di transito. I migranti sbarcavano, attraversavano l’Italia e puntavano ai Paesi del Nord Europa. Con la chiusura delle frontiere siamo diventati una destinazione finale. Qui arrivano e qui rimangono. Ecco perché i numeri e le difficoltà per l’Italia stanno aumentando.
C’è innanzitutto un problema di distribuzione dei richiedenti asilo sul territorio nazionale. Su 8.000 comuni sono poco più di 2.000 quelli che li accolgono. La fatica dell’accoglienza è concentrata sui pochi Comuni disponibili.
La base dell’accoglienza va dunque urgentemente ampliata. Un recente accordo tra il Ministero dell’Interno e l’Associazione dei Comuni italiani ha fissato alcuni parametri e un orizzonte a cui tendere, basato su un ampliamento dello SPRAR (il Sistema di Protezione dei Richiedenti Asilo e Rifugiati). L’obiettivo è quello di organizzare l’accoglienza in modo equo e sostenibile, secondo modalità diffuse, per piccoli numeri proporzionati alla popolazione residente. Per arrivarci è però necessario un efficace meccanismo di incentivazione dei Comuni, che da tempo stiamo sollecitando al nostro Governo.
Dopodiché, siamo di fronte ad alcune evidenze:
1) Un’attesa troppo lunga (che in molti casi arriva a 18 o a 24 mesi) della risposta alle richieste di protezione, attesa durante la quale una buona parte dei richiedenti asilo trascorre il proprio tempo nei centri di accoglienza senza fare assolutamente nulla;
2) Una larga maggioranza di risposte negative alle domande di protezione internazionale (per i flussi più recenti). Del resto proprio ieri la Commissione europea, per bocca del Commissario Dimitris Avramopoulos, ha segnalato che l’80% dei migranti che arrivano in Italia, 4 su 5, sono irregolari. Si tratta dei cosiddetti “migranti economici”, ossia persone che non fuggono da situazioni di aperto conflitto o da gravi persecuzioni, ma che lasciano i propri Paesi spinte dalla miseria, da carestie, e quindi dalla speranza di migliorare le proprie condizioni di vita, esattamente come facevano gli emigranti italiani nel secolo scorso. Inserirli in un percorso di richiesta d’asilo è di per sé un grande equivoco, sia per il nostro Paese — che con una mano li spinge a presentare la domanda, e con l’altra gliela respinge — sia per loro, che si vedono in molti casi costretti a inventarsi improbabili storie di persecuzioni. E’ una situazione paradossale, che non giova a nessuno: i costi — per l’Italia, che ne sostiene l’accoglienza per un lungo periodo, e per gli immigrati, che rimangono in un limbo di indeterminatezza e di assistenzialismo — sono enormi.
Senza contare il dopo. La legge ne prescrive il rimpatrio.
La terza evidenza è che i rimpatri eseguiti sono invece una minima parte. Sono infatti pochissimi gli accordi bilaterali in essere con i Paesi d’origine (tutt’altro che facili da concludere, per la scarsa disponibilità di questi ultimi) e ci sono grosse difficoltà di carattere burocratico ed economico. Ogni rimpatrio assistito costa tra i 3.000 e i 5.000 euro. Non è quindi realistico, almeno nel breve, che se ne possano fare molti di più.
Dunque i cosiddetti “diniegati” restano nelle nostre città, espulsi dai luoghi di accoglienza, senza documenti e senza alcun sostegno economico, irregolari consegnati ad una sopravvivenza di espedienti e di attività illegali, fantasmi in attesa di trasformarsi in un problema di sicurezza e di ordine pubblico.
Questa è la situazione. Paradossalmente la zelante applicazione dei criteri di riconoscimento dei profughi dettati sul Trattato di Dublino trasforma il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo in una “fabbrica di clandestini”.
La domanda cui dobbiamo rispondere riguarda il destino di queste persone. Quale vogliamo che sia? Oggi la gran parte è destinata alla marginalità e all’illegalità.
L’alternativa, basata su una proposta che alcuni di noi sindaci hanno avanzato nei mesi scorsi, è provare ad accompagnare in un percorso di integrazione chi tra loro ha voglia di fare, di imparare e di rispettare le leggi del nostro Paese (almeno finché non sarà realisticamente possibile selezionare all’origine i flussi). Per farlo è necessario cambiare, dall’inizio, il sistema dell’accoglienza sui nostri territori, fondandolo su formazione e lavoro. Serve un percorso strutturato, standardizzato, che faccia di formazione e lavoro di utilità sociale la regola di base dell’accoglienza sui territori, sin dall’arrivo dei richiedenti asilo.
Quanto al lavoro, l’ipotesi che abbiamo avanzato è quella di impegnare i richiedenti asilo (al pari dei rifugiati) in attività nel loro complesso riconducibili ad un grande Piano straordinario di manutenzione e messa in sicurezza dei territori. L’Italia ne ha un grande bisogno. In questa cornice possono rientrare attività finalizzate al contrasto del dissesto idrogeologico dei suoli, al recupero di aree per la coltivazione e il pascolo nelle aree interne e nei territori montani, alla pulizia dei boschi e dei corsi d’acqua, ma altresì attività svolte al presidio e alla vigilanza dei luoghi pubblici, anche all’interno delle città.
È quello che in parte già si fa, ma a macchia di leopardo, in modo assai disomogeneo e con i limiti di un’adesione volontaria da parte dei richiedenti asilo: partecipare o non partecipare, lavorare o non lavorare, imparare o non imparare l’italiano non fa alcuna differenza, non porta alcun vantaggio.
Per ottenere il risultato, io credo, è auspicabile che il livello di apprendimento e l’impegno profuso nel lavoro possano essere in qualche modo VALUTATI ai fini della concessione del permesso di soggiorno umanitario da parte delle Commissioni Territoriali. Che non può essere concesso a tutti, ma solo a chi accetta, concretamente, un patto fondato su formazione, lavoro e concreta volontà di integrazione. Ciò comporta, è evidente, il superamento della distinzione tra “rifugiati” e “migranti economici”, del resto sempre più opinabile.
Là dove il percorso portasse al permesso di soggiorno, potrebbe continuare nei successivi 12 mesi nei centri SPRAR, in base al già esistente Accordo di accoglienza, integrandosi a formazione professionale e tirocini.
In questo modo — modificando le regole di ingaggio — potremmo evitare di dissipare lo sforzo (anche economico) prodotto durante la fase di prima e seconda accoglienza dei migranti. In questo modo potremmo evitare di “diseducarli” lasciandoli fino a due anni senza far nulla, e insegnare loro che l’accoglienza ricevuta richiede una restituzione. Potremmo in questo modo ridurre il numero dei rimpatri da eseguire ed evitare di generare una massa crescente di irregolari indirizzati — per sopravvivere — verso attività illegali. E potremmo infine — finalmente — iniziare a collegare accoglienza e percorsi di integrazione, immigrazione spontanea e governo dei fabbisogni demografici.
Già sappiamo che molti si opporranno aspramente a questa prospettiva di integrazione, alimentando ogni tipo di paura e provando ad affermarne l’impraticabilità, basata sull’idea che “I migranti ci rubano il lavoro”. Si tratta di un luogo comune molto diffuso, e tuttavia infondato: ben 27 ricerche sugli effetti dell’immigrazione in una determinata area geografica, pubblicate negli ultimi 30 anni, dimostrano infatti chiaramente il contrario.
Grazie per la vostra attenzione.”
Giorgio Gori
Sindaco di Bergamo
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