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Il discorso

Micheli: “Caro maestro Muti, le porte del teatro e di Bergamo per te sono sempre aperte”

Il discorso di Francesco Micheli, direttore artistico della Fondazione Donizetti, per il conferimento della Medaglia d'Oro della Città di Bergamo al maestro Riccardo Muti.

Il discorso di Francesco Micheli, direttore artistico della Fondazione Donizetti, per il conferimento della Medaglia d’Oro della Città di Bergamo al maestro Riccardo Muti.

Stimato Maestro, cari amici,
Il riconoscimento che quest’oggi conferiamo al Mº Riccardo Muti riempie di emozione non solo me, qui in veste di Direttore Artistico del Festival, Donizetti Opera ma tutta Bergamo, e non solo. Senza dubbio il rinnovato festival, alla sua prima edizione, dedicato al nostro compositore non poteva nascere sotto i migliori auspici, ma posso spingermi nell’annoverare questa giornata come una tra le più importanti celebrate in questa sala.
Festeggiamo, ricordiamo e consacriamo oggi una data precisa di 50 anni fa, quel 27 novembre del 1966 nel quale un venticinquenne Riccardo Muti debuttava al Teatro Donizetti di Bergamo, come direttore, sul podio dell’Orchestra “Vit Nejedly”. Lasciatemi ricordare le parole che lo stesso Muti ha scritto nella sua autobiografia a proposito: “Lavorai con i musicisti per una serie di concerti nel Nord Italia per la Gioventù Musicale, il programma prevedeva la Sinfonia dal Nuovo Mondo di Dvořák, la Quinta di Čajkovskij, la Leonore 3, il coro di prigionieri del Fidelio e la Rapsodia di Brahms. Avevo sempre in testa la regola ferrea di Antonino Votto: il gesto astratto e l’esercizio davanti allo specchio non servono, le braccia promanano dal cervello e il loro moto ha da essere del tutto spontaneo, come fossero la pura estensione della mente. La tappa più importante di quell’esperienza fu Bergamo, al Teatro Donizetti: per me neppure trentenne era come trovarmi alla Carnegie Hall o alla berlinese Philharmonie!”.
Grazie Maestro. Per ieri e per oggi. A cinquant’anni da quella data abbiamo il privilegio e la gioia di poterla ospitare nuovamente in quel teatro, il nostro teatro, nel quale tutto ebbe inizio. Ormai lei è Riccardo Muti ma noi la vogliamo accogliere esattamente con la stessa tenerezza e paternità con la quale aprimmo le porte, mezzo secolo addietro, a quel giovane uomo di 25 anni che qualcuno, in città, ancora ricorda di aver visto e udito. Questo ringraziamento non è nostalgico, melenso o retorico. È, oserei dire, filosofico. Lei, Maestro, incarna una delle più profonde e ricche frasi che Nietzsche ci abbia lasciato: “Non bisogna rimpiangere il passato ma realizzarne le premesse”. Quante premesse, vero caro Maestro, in quel concerto…
Lei è l’esempio vivente di quel pensiero, la realizzazione del talento attraverso il duro lavoro, lei è un esempio per tutti, soprattutto per quei giovani che con tanta ostinazione e volontà educa all’arte. Il suo è un impegno nel presente, a favore del tempo a venire. Questa sera il suo concerto al Donizetti si legherà idealmente a quello di decenni fa a dimostrazione di come la vita, e la musica, siano in realtà un percorso circolare, un eterno ritorno, e non una linea retta senza mèta. Tale valore profondo dell’esistere assume qui e ora un’evidenza oserei dire solenne. Bergamo è la città in cui un giovane borgataro di umilissimi origini, Gaetano Donizetti, grazie alla Mia, la gloriosa istituzione al suo 751esimo anno d’età, incontra Simone Mayr. Al ragazzino di Borgo Canale il sommo musicista tedesco dispensa i segreti dell’arte musicale così come lei questa sera condurrà per mano i giovani musicisti nello stesso palco in cui lei ha debuttato… più meno alla loro età.
Certamente, questo riconoscimento che tutta la Città le offre, è anche il segno di una profonda gratitudine che le dobbiamo per essersi fatto ambasciatore nel mondo del nostro Donizetti, in particolare della sua opera più gioiosa e lunare, più meditativa e al tempo stesso leggera, il Don Pasquale.

“Che cos’è l’interprete se non un critico che batte alle porte della creazione?” si chiedeva Vittorio Gui. Ebbene il Maestro Muti, ponendo a più riprese le mani, l’intelletto e il cuore nel Don Pasquale, non solo ha interpretato questa partitura ma l’ha ricreata, portandola di nuovo in auge e indicandola a tutto il mondo quale capolavoro indiscusso di Donizetti.

Muti ha scavato nella superficie dell’opera, insediandosi tra un sorriso e l’altro che il libretto suscita, giungendo all’essenza della partitura. Don Pasquale non è un’opera buffa o meglio, è qualcosa di più. È una lucida riflessione sulla vecchiaia, sul contrasto generazionale, è una meditazione sulla vita, sul desiderio di immortalità e, alla fine, è un risveglio – amaro e un po’ crudo – da un sogno. Canta Don Pasquale nell’Andante del Finale secondo: “Sogno? Veglio? Cos’è stato? Sogno?”.

Tutt’al più siamo in presenza di un’opera umoristica – nel senso pirandelliano del termine – non comica.

E qui l’interpretazione di Muti ha sottolineato la genialità di Donizetti che, scegliendo un soggetto ben noto, addirittura un po’ vecchio, non lo ricopre con le solite maschere e movenze da teatro buffo ma lo riveste di reale. Muti ha rivelato Don Pasquale per l’opera complessa che è, nella quale Donizetti parla di conflitti, di una nuova borghesia arrivista, di un’amara commedia nella quale i punti di vista slittano di continuo. E se addirittura Don Pasquale non fosse altro che uno spietato gioco autoreferenziale che Donizetti dedica a se stesso?

Di fatto all’epoca della composizione l’autore aveva 45 anni e gliene sarebbero rimasti pochi da vivere, stava avvertendo i primi insanabili sintomi della malattia all’ultimo stadio e già presagiva la fine. Da questa cupa situazione nasce un sorriso e un’opera meravigliosa. Quasi come il Falstaff verdiano ante litteram. D’altronde, come diceva Rilke, la bellezza non è che il tremendo al suo inizio. Mi voglio spingere oltre: la perfezione e grandiosità interpretativa che Lei ha conferito alla partitura ha innalzato a tali vette quest’opera da diventare nel contempo emblema, simbolo della natura dei bergamaschi: una terra in cui i padri e i figli, i vecchi e i giovani, si parlano, si incontrano, anche ferocemente, nel passaggio delicato di saperi e valori.

Don Pasquale. L’opera piacque particolarmente nella Vienna dell’Ottocento, probabilmente per i pulsanti ritmi di valzer che invadono la partitura del Don Pasquale; ebbene, proprio a Vienna inizia un’altra storia che lega Muti a Donizetti. Nel 1971, nella Sophiensaal, Riccardo Muti iniziava le prove di lettura del Don Pasquale con i Wiener Philharmoniker, chiamato da Herbert von Karajan. Era il primo incontro con quella che sarebbe diventata “orchestra del destino” per il Maestro, ed avvenne proprio con Donizetti. Ancora dall’autobiografia leggo: “Ero impaurito. E per giunta arrivai in ritardo con il cuore in gola […] qualche professore era fuori a fumare, temetti che il mio rapporto finisse prima ancora di cominciare. All’inizio delle prove mi guardai attorno: avevo davanti tanti anziani che dagli anni dell’immediato dopoguerra ricordavano ancora maestri come Wihlhelm Furtwängler, Bruno Walter, Josepf Krips, Ferenc Fricsay… qualcuno aveva persino suonato nel Flauto magico con Toscanini a Salisburgo. Era l’orchestra dei grandi direttori che provenivano dai teatri dell’Impero Asburgico. E io lì, fra i leoni (a trent’anni, aggiungo io).

La Vienna di allora era una città cupa. Allo stesso modo il clima musicale era tanto solenne da impressionare un giovane come me proveniente dall’Italia: avevi quasi paura che per strada ti venissero incontro Beethoven e Haydn o – sulle scale del Muskverein – Brahms, Brukner o Schönberg. Tutto era in qualche misura greve e pesante. Per mia fortuna, potei chiedere aiuto a Donizetti: parlavamo la stessa lingua”.

La stessa lingua. Lo stesso codice. La stessa risorsa. La stessa musica. Ubi Bene ibi Patria.

Là dove ci si sente bene, quella è la patria, e pensare che la musica sia la patria comune di molti di noi, terra di migranti, nella quale ci rifugiamo quando siamo lontani, o soli, o lavoriamo, è di conforto. E qui la patria è Donizetti. E in quella Vienna del 1971 la patria, anche per Muti, è stata Donizetti con le sue calde melodie, e le sue armonie così mediterranee.

Lasciatemi concludere con un augurio e una speranza. Le chiedo perdono fin d’ora per la mia improntitudine, ma quanto le dico è sgorgato naturalmente dalla mia mente, come logica conseguenza di quanto affermato finora.

Oggi è una giornata di radiosa importanza: si aggiungono a questi festeggiamenti le celebrazioni per il Dies Natalis del compositore, nato il 29 novembre di 219 anni fa. È cosa gradita nonché speranza e sogno che tra il Maestro Muti e la nostra comunità, si possa instaurare un duraturo rapporto sotto il nome di Donizetti. Le porte del nostro Teatro e della nostra città sono e saranno sempre aperte per il Direttore che il mondo ci invidia. Oggi questa medaglia la doniamo a lei, Maestro, ma in realtà rimane nostris affixa medullis, “impressa nel nostro cuore”, come direbbe Federico II, suggello di un ricordo, testimonianza storica e premessa per il futuro.

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