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Emozione, poesia, spessore: “Nessuno come Leonard Cohen”

Il nostro Brother Giober ha recensito l'ultimo disco del grande artista da poco scomparso: "Un disco non per tutte le ore del giorno, non per tutte le occasioni, forse non per tutte le orecchie. Questa settimana nessun riferimento ad artisti 'similari'. Perché nessuno è come Leonard Cohen"

Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi ed andare al cinema;
** se non ho proprio altro da ascoltare….
*** in fin dei conti , poteva essere peggio
**** da tempo non sentivo niente del genere
***** aiuto! non mi esce più dalla testa;

ARTISTA: Leonard Cohen
TITOLO: You Want it Darker
GIUDIZIO: ***1/2

L’anno era iniziato male, proprio male: David Bowie ci aveva lasciato dando alle stampe un album bellissimo che sapeva tanto di testamento. L’anno si sta per chiudere, con una notizia ancora nefasta: il decesso di Leonard Cohen, all’indomani della pubblicazione del suo ultimo lavoro You Want It Darker. In mezzo Prince e molti altri.

Bowie e Cohen, due artisti così distanti fra di loro ma per certi versi molto vicini, ad ogni modo due artisti che lasciano un grande vuoto.
Leonard Cohen muore all’età di 82 anni dopo aver dato alle stampe una quindicina di album, neppure molti se si pensa alla all’importanza che ha nella storia della musica.

Alla musica ci arriva tardi, superati i trent’anni. Fino ad allora una carriera da scrittore con alcuni buoni successi. Il primo album nel 1967 (Songs of Leonard Cohen) registrato grazie alla spinta di una cantante di grande successo di quegli anni, Judy Collins, protagonista di una versione riuscita di Suzanne.

Il suono scarno di quei primi dischi, le atmosfere severe, l’inesistenza di qualsiasi concessione al facile ascolto, non gli impediscono di iniziare da subito a frequentare le grandi platee della musica folk tra cui quella del festival di Newport (1967), proprio quello della svolta elettrica di Bob Dylan, e del rock come quella dell’Isola di Wight dove Suzanne viene proposta davanti a 600mila persone.

Il suo pubblico di allora come quello di questi giorni è generalmente colto ed apprezza la profondità dell’artista, il suo essere fuori da ogni schema e scevro da ogni moda. Nelle sue canzoni ha trattato con straordinaria sensibilità i sentimenti umani, l’amore e l’amicizia, i temi politici, l’erotismo, la religione. Il suo modo di vivere mai banale, dopo una vita vissuta all’insegna della trasgressione, agli inizi degli anni ’90 si è ritirato a condurre un’esistenza improntata alla spiritualità tornando sulle scene nel 2008. Da quell’anno la sua arte è stata oggetto di una riscoperta da parte del pubblico, quello più vasto e ogni suo disco, ogni suo tour, sono stati un successo.

Qualche mese fa, precisamente ad agosto, muore Marianne Ihlen, la donna incontrata negli anni Sessanta sull’isola greca di Hydra cui Leonard Cohen aveva dedicato So long, Marianne e Bird on Wire. Nell’occasione Cohen ebbe a dire “Ti ho sempre amata per la tua bellezza e per la tua saggezza ma non serve che io ti dica di più poiché lo sai già. Adesso voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica, amore infinito. Ci vediamo lungo la strada”.

La mia stima per Cohen è recente: di fatto è stato Carù, attraverso i suoi articoli e le sue recensioni, a stimolare la mia curiosità all’ascolto. Prima conoscevo le sue canzoni più famose: Suzanne e la ultra-coverizzata Halleluja, ma il tutto si fermava lì perché ero vittima di un pregiudizio che ricorre ogni qual volta l’artista dà più peso alla parola piuttosto che alla musica.

Poi un giorno ho comprato Live in London rendendomi subito conto di quanto mi fossi perso in tutti questi anni. Il mese scorso a Gallarate, Carù mi suggerisce di acquistare You Want It Darker tessendone sperticate lodi che mi convincono all’acquisto e all’ascolto. You Want It darker è un “disco bello” (che è cosa diversa dall’essere un “bel disco”), profondamente spirituale ed ascoltato oggi rappresenta un evidente testamento, un arrivederci al mondo che gli ha voluto bene ma forse non lo ha capito sino in fondo. You Want It Darker ricorda per certi versi l’ultimo album di Nick Cave (devo però ammettere che di quest’ultimo tutti, a parte il sottoscritto, ne hanno scritto un gran bene), ma certamente suona più riuscito, più genuino, più sentito. Anche se è un lavoro per nulla facile.

A generica

Le canzoni sono tutte avvolte in un clima nostalgico, in alcuni casi decisamente triste ed il modo di interpretare del cantautore canadese che secondo abitudine, che più che cantare, declama, disorienta, rende insicuri. Il disco apre con la canzone che dà il titolo a tutta la raccolta e da subito il livello è decisamente alto. Sulle note di un coro, che ha toni religiosi, Cohen canta a suo modo creando immediatamente un clima cupo che però in qualche modo ha una sua serenità che è il frutto della consapevolezza. Per certi versi potrebbe essere una sorta preghiera, di Halleluja dei nostri giorni anche se la melodia non ha la medesima forza accattivante.

Treaty è introdotta dalle note di un piano che fanno da cornice alle parole declamate dall’artista. Il brano ha una forma più tradizionale rispetto alle altre tracce del disco e suona straordinariamente bene. Forse la cosa più bella dell’intera raccolta. On the Level è la riflessione di un uomo maturo che tuttavia non vuole rinunciare ai sentimenti, non vuole dimenticare i sapori giovanili dell’unione con un’altra donna. È un bel brano puntellato dalle note di un piano, dove il clima plumbeo che caratterizza l’intero disco si stempera in una dolcezza diffusa. Leaving the Table è profetica (Abbandono il tavolo/ sono fuori dai giochi) ed è introdotta, inusualmente, da un suono di chitarra. La traccia, più lenta e sussurrata del solito, musicalmente non è del tutto riuscita anche se ascoltata oggi fa riflettere e suona particolarmente suggestiva. Una riflessione malinconica sull’esistenza è quella If I Didn’t have Your Love, brano questa volta introdotto e caratterizzato dal suono di una tastiera sul quale la voce di Cohen si spiega come fosse uno strumento, accompagnata dal battito quasi impercettibile di una percussione.

Un’atmosfera tra il mediterraneo e il gitano è quella di Travelling Light, una canzone struggente, interpretata con modi ancor più compassati del solito, una voce cavernosa ed un violino messo lì, insieme alle voci femminili, apposta ad evidenziare il tono melanconico. Un brano di una bellezza assoluta di fronte al quale è veramente difficile non emozionarsi. Ancora le note di un violino introducono la successiva It Seemed The Better Way nella quale Leonard Cohen assume i toni del narratore. L’emozione è ancora molto forte grazie anche ad arrangiamenti appena accennati sui quali la voce dell’artista emerge protagonista. Questa volta la melodia è precisa e in qualche modo resta nella testa. Steer Your Way ha ritmo appena più accennato con il violino protagonista mentre a chiusura del disco viene ripresa Treaty, questa volta in versione quasi solo strumentale, che suona tanto come una sorta di epitaffio.

Un gran bel disco, emozionante, spesso. Non per tutte le ore del giorno, non per tutte le occasioni. Forse non per tutte le orecchie. Però un disco emozionante. Questa settimana nessun riferimento ad artisti “similari”. Nessuno è come Leonard Cohen.

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