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La lettera

La denuncia del giovane avvocato: “Disilluso e avvilito, abbandono la pratica”

Un giovane praticante avvocato denuncia al presidente dell'Ordine una situazione spiacevole che lo ha costretto, dopo mille sacrifici, ad abbandonare la pratica forense.

L’entusiasmo per la laurea in giurisprudenza e per la possibilità finalmente di confrontarsi con la pratica forense si è spento quando per la prima volta ha messo piede in uno studio legale: è la storia di un giovane praticante in cui, forse, in tanti si riconosceranno e che ha spinto il protagonista ad abbandonare la strada intrapresa con il suo percorso di studi.

Una situazione spiacevole che ha voluto denunciare al presidente dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo Ermanno Baldassarre, al quale ha scritto una lunga lettera che vi proponiamo:

Egregio Presidente,

la questione che mi accingo ad esporLe non è nuova né particolarmente originale, ma merita, a mio avviso, la massima attenzione, poiché coinvolge tutta una serie di problematiche di tipo etico, sociale, culturale e, in ultima analisi, costituzionale, che non possono essere rimosse sic et simpliciter.

Sono un giovane laureato in giurisprudenza dell’Università di Bergamo e circa un mese fa ho cominciato la pratica forense presso uno studio legale cittadino. Mosso dalla passione per il diritto penale e dal desiderio di imparare il “mestiere”, ho da subito affrontato la nuova esperienza con entusiasmo e, se si vuole, con quell’incoscienza tipica dei neofiti.

Superati non senza difficoltà i primi ostacoli di carattere burocratico, scoprivo tuttavia, come un Candide scappato dal suo castello, la dura e per certi versi sconcertante realtà forense. Il primo incontro con il mio dominus è stato in questo senso rivelatore. Dopo avermi esposto brevemente l’ambito di attività dello studio, questi, con naturalezza e senza alcun imbarazzo, mi ha chiesto se fossi figlio di avvocati e, alla mia risposta negativa, ha ribattuto domandandomi se potessi permettermi il praticantato. Ovviamente non ho potuto nascondere un certo disagio, ma ho preferito comunque far buon viso a cattivo gioco, dicendo che avrei continuato, come negli anni universitari, a lavorare nel week-end per racimolare un po’ di denaro.

Le prime inaspettate questioni erano il prologo da consumato teatrante per la fatidica e poco originale sentenza: “Il primo anno non corrispondo nessun rimborso spese ai miei collaboratori. Si lavora dal lunedì al venerdì, dalle 8.45 alle 19”.

Seguiva la firma delle carte e la presentazione dei colleghi, ma di queste circostanze ho un ricordo sbiadito. Ero infatti già assorto nei ricordi delle lezioni universitarie di diritto del lavoro sulla giusta retribuzione di cui all’articolo 36 della Costituzione. Non potevo peraltro non pensare, con amara ironia, al primo, cruciale articolo della nostra Carta fondamentale, che lapidariamente afferma: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Evidentemente, ho pensato, l’Italia non è più una Repubblica, o forse non è più democratica. Forse. Nel frattempo, con il passare dei giorni, mi concentravo sulle mansioni affidatemi, che, per quanto consistenti prevalentemente in attività di mera segreteria, stimolavano la mia curiosità intellettuale, se non altro perché finalmente potevo avere un’idea di che cosa fosse quel “diritto vivente” freddamente descritto dai voluminosi manuali accademici. Potevo anche, finalmente, vedere da vicino un’udienza e cominciare a comprendere il canovaccio recitato quotidianamente nelle aule di giustizia.

E tuttavia, nonostante i molti, troppi sacrifici cui ero costretto (meglio, cui era costretta tutta la mia famiglia) per sbarcare il lunario ed affrontare al meglio la settimana lavorativa, l’impudenza del mio dominus pareva non trovare limite. In occasione della consegna dei libretti dei praticanti, recatomi con l’avvocato presso il nostro (sic) Ordine, dovevo sorbirmi una commedia nient’affatto divertente.

Protagonista un principe del foro, comprimario il sottoscritto. La trama, a dire il vero particolarmente raffinata, culminava in una sgarbata consulenza estetica, con il consiglio di comprarmi degli abiti nuovi, magari risparmiando sulle uscite con gli amici , giacché, riporto fedelmente, “l’abito fa il monaco”.

Ma non fa il signore, verrebbe da dire.

Un consiglio che in altre circostanze sarebbe stato forse ben accetto, benché non fossi esattamente vestito di cenci, risultava e risulta insopportabile proprio in ragione dello sfruttamento totale cui venivo sottoposto e cui vengono, purtroppo, sottoposti molti praticanti: costretti ad orari oberanti, senza alcun compenso, inquadrati ed irregimentati secondo schemi da catena di montaggio più che da tirocinio all’interno di un contesto intellettualmente stimolante.

Nei giorni successivi, ormai disilluso ed avvilito, ho cercato comunque di tirare a campare, di far passare senza intoppi le giornate, in attesa di rimediare qualche ora di lavoro domenicale ed avere così la certezza di potermi finanziare un’altra settimana di lavoro. Lo scorso week-end, però, il maltempo e la penuria di clienti hanno fatto saltare la giornata lavorativa di molti che, come me, lavorano “a chiamata”, inducendomi così ad una lunga e sofferta riflessione, risoltasi nella decisione di abbandonare la pratica forense.

Nel mio caso, come in altri, allo scoramento morale si aggiunge la pratica impossibilità di autofinanziare un percorso divenuto ormai selettivo su base censitaria, come avveniva per l’ordine equestre nell’antica Roma. Non è infatti possibile, per chi non disponga di forme di rendita parentale o di un cospicuo patrimonio personale, concludere quel percorso che ineludibilmente si deve affrontare per accedere all’esame di abilitazione alla professione di avvocato.

Forse converrebbe scolpire all’ingresso degli studi legali il fondamentale discorso che Piero Calamandrei rivolse agli studenti italiani nei primi anni di vita della Repubblica e di cui mi piace riportare il seguente passo: “Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società”.

Il progresso di tutta la società era l’orizzonte a cui guardava il grande giurista, ed al progresso della società dovrebbe guardare l’ avvocato, oggi come ieri chiamato al delicato ruolo di garante della legalità, in tutte le sue declinazioni. Ma, come nella celebre sentenza latina citata da Cicerone, “summum ius, summa iniuria”: il massimo di ingiustizia risiede proprio nei luoghi ove si dovrebbe promuovere la giustizia. E se è vero che non c’è libertà senza giustizia, in primo luogo giustizia sociale, allora viviamo in una società illiberale. Una società nella quale le “menti migliori della mia generazione”, parafrasando Allen Ginsberg, sono messe nella condizione di non poter pensare, quindi di non vivere, perché prese dall’angoscia di sopravvivere.

Lettera firmata

 

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