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Referendum trivelle: votare è importante ma il cambiamento deve essere culturale

Proponiamo l'editoriale del direttore di infoSOStenibile Diego Moratti sul tema del referendum: “Piuttosto che arrovellarci solo quando c’è un referendum, se vogliamo che sia una certa cultura e una certa economia a nutrire il Belpaese, più che il sottosuolo occorre scavare tra la superficialità degli slogan, per votare ogni giorno attraverso i nostri consumi abituali”.

di Diego Moratti

Senza troppo trivellarci la testa con un referendum che cambierà ben poco la nostra politica energetica, diciamoci subito che l’unico vero voto a favore delle energie rinnovabili e a favore di un’altra economia, l’unico voto a tutela della biodiversità e delle produzioni agroalimentari rispettose dell’ambiente e della salute, non lo si esprime con una semplice croce il 17 aprile, ma lo si dovrebbe praticare ogni giorno, attraverso i nostri consumi abituali e i nostri stili di vita.

Sono le nostre scelte quotidiane in realtà che favoriscono ancora fonti fossili, benzina, strade, nuove costruzioni, produzioni energivore, consumi di massa, spreco alimentare: se pure bloccassimo le trivellazioni nei nostri mari, per soddisfare le esigenze di consumo della nostra società dovrebbero comunque aumentare le petroliere o l’importazione di gas dall’estero.

A meno che non si faccia il salto di qualità di passare da una società dei consumi a una più consapevole cultura dei consumi.

Ce lo diciamo da sempre – ed è verissimo- che il primario carburante dell’economia italiana potrebbe essere l’immenso patrimonio storico, architettonico e paesaggistico unico al mondo, l’eccellenza di giacimenti eno-gastronomici che derivano da una fortunata varietà geografica delle nostre terre e che si uniscono a sapienti tradizioni locali. Il turismo potrebbe essere una risorsa economica e occupazionale capace di far tesoro delle nostre invidiabili condizioni climatiche e ambientali, delle nostre ineguagliabili località d’arte e -caratteristica tutta italiana- di una miriade di piccoli borghi storici ricchissimi di storie e folclore.

Eppure la cultura che manca non è tanto la possibilità di fruire di consumi culturali anche di elevato spessore, di festival letterari o musicali, di rinomate occasioni culinarie o di onnipresenti prodotti tipici. La cultura che manca è quella di vedere dentro ogni gesto e ogni azione la parte di un tutto, di riconoscersi in un’idea di società che ciascuno di noi costruisce giorno per giorno e che scaturisce dalla somma delle scelte individuali.

Quanti vedono nei consumi culturali una scelta di promuovere una risorsa economica e professionalità da considerare prioritarie per la società, piuttosto che il semplice appagamento di un desiderio personale per riempire magari un po’ di tempo libero?

Quanti colgono la differenza tra acquistare presso Mercati dei produttori o di artigiani gestiti da associazioni, cooperative o negozi di vicinato che hanno alla base una filosofia riconosciuta e una visione della società legata concretamente ad azioni ecologicamente sostenibili e quanti invece sono i mercatini di prodotti alimentari o artigianali che sempre di più si improvvisano sulla base di slogan o tendenze del momento?

Votare al referendum è importante se si vuole dare un segnale politico di attenzione, ma è più importante usare più spesso la bici o i mezzi, muovendoci senza pensare esclusivamente alla comodità dell’auto personale o del parcheggio a portata di mano. È più importante scegliere di trascorrere una o tante domeniche tra amici al museo, in parchi o fattorie didattiche, nei piccoli borghi caratteristici o immersi nella vera natura. Andare a fare la spesa sapendo di compiere -questo sì- un atto politico che influisce sul tipo di produzioni e di economia che si vuole favorire. Se mangiamo solo pizza d’asporto nei fast food o nei bar, i nostri giovani troveranno lavoro solo come pony pizza; se rimaniamo inchiodati ai cellulari e alle pay tv non lamentiamoci se poi le uniche occasioni occupazionali vengono offerte dai call center legati a questi servizi. Se compriamo prodotti senza guardare l’etichetta dove -a fatica- si può intuire che le materie prime usate e il lavoro sono eseguiti all’estero, magari in condizioni poco o per nulla tutelate, non lamentiamoci se la nostra agricoltura e la nostra economia sono in difficoltà o se orde di immigrati impoveriti lasciano le loro terre invase da multinazionali che noi stessi alimentiamo con i nostri consumi.

Certo in tutto questo il ruolo dell’informazione e dei mass media è cruciale, ma la ricerca stessa di informazioni affidabili è anch’essa una forma di consumo responsabile di cultura, tanto più in un epoca dove ogni “sparata” diventa virale e i dibattiti sono solo contrasti di posizioni preconcette che non argomentano quasi mai i loro contenuti.

Piuttosto che scaldarci buttando sempre tutto in una politica di scontri che si gioca tra Facebook e mass media, piuttosto che arrovellarci solo quando c’è un referendum, se vogliamo che sia una certa cultura e una certa economia a nutrire il Belpaese, più che il sottosuolo occorre scavare tra la superficialità degli slogan, per votare ogni giorno attraverso i nostri consumi abituali o, meglio ancora, attraverso una più consapevole, informata e sostenibile, cultura dei consumi.

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