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L'analisi

I timori di Putin alla base della geopolitica della Federazione Russa

Giancarlo Elia Valori, Honorable de l’Académie des Sciences de l’Institut de France, spiega la geopolitica della Federazione Russa.

In un ormai noto discorso alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, nel 2007, Vladimir Putin ebbe modo di chiarire duramente le determinanti strutturali della sua politica estera.

Li elenchiamo in modo sintetico: la Russia, secondo il Presidente Putin, non tollera in alcun modo l’accerchiamento che l’Alleanza Atlantica ha compiuto, e tuttora svolge, ai limiti del vecchio Patto di Varsavia.

Putin non è nemmeno convinto, ed è difficile dargli torto, che la rete di sensori, radar, missili ICBM oggi in azione intorno alla Federazione sia destinata alla gestione della “instabilità nel grande Medio Oriente”.
Peraltro, Putin riteneva, e tuttora ritiene, che il sistema internazionale si debba basare unicamente sulla legalità dell’ONU e delle altre agenzie globali, piuttosto che, come rispose il presidente russo proprio al ministro della Difesa italiano di allora, solo sulla NATO e sulla UE.

O sulle coalitions of the willing che avevano dato la stura, con effetti nefasti e imprevedibili, alle azioni degli USA (e dei sauditi) nella Prima e Seconda Guerra del Golfo, annullando uno storico alleato di Mosca, l’Iraq, per creare il vuoto pneumatico delle bande e delle potenze regionali su un territorio divenuto “terra di nessuno”, per di più petrolifera.
Putin si ricorda ancora di quando il Capo del Governo provvisorio USA, a Baghdad, creò un sistema di segnalazione viaria del tutto simile a quello di Boston.

Per il Presidente russo, l’unipolarità americana è il prodromo del vuoto strategico nelle aree ai bordi degli imperi, con effetti negativi incalcolabili per le strategia future dei leaders globali, perfino degli stessi Usa.

Putin a Monaco si dichiarò, poi, estremamente interessato ad un accordo con gli Usa per la diminuzione dei sistemi missilistici Icbm, da estendere successivamente anche ad altri attori regionali.
Una trattativa da compiere in termini strettamente bilaterali e interna agli organi dell’Onu, e non delegata ad altre alleanze regionali,
Una “convenzionalizzazione” dello scontro quindi che, per il Presidente russo, evita la minaccia nucleare costante e permette una forte riduzione delle spese militari, che non saranno più, per Putin, dirette verso un impossibile scontro bilaterale e finale post-guerra fredda, ma saranno finalizzate ad un controllo e a una riduzione degli scontri periferici degli Stati posti nel Rimland, nelle periferie dei vecchi blocchi contrapposti.

Anche qui, una speciale attenzione russa agli effetti distruttivi di un futuro mondo unipolare: nessuna potenza può da sola controllare il mondo, ma se lo fa genera polarizzazioni che preludono ad un terribile scontro bellico.
Il caso dell’Iran, in quegli anni, era evidente.

Per la Russia, il mondo del futuro deve essere multipolare, soprattutto in una fase in cui gli USA hanno perso il primato geoeconomico, e quindi, in sostanza, la globalizzazione è finita. Anzi, deve finire.
E l’Europa? Aspetterà le bricolie del trattato, ancora segreto, del TTIP con gli USA per credere di espandere la sua economia o comincerà davvero a pensare in grande, quale peraltro sarebbe il suo ruolo geoeconomico globale?

Infine, dopo alcune osservazioni molto dure sul comportamento degli USA, Putin affermò a Monaco che le pressioni indebite per esportare la “democrazia” sono in effetti pessime forme di ingerenza, insieme alle ONG internazionali, che generano il loro contrario.

Ovvero stati deboli e viable che sono alla mercè degli aiuti internazionali, costosi, nonché cavallo di Troia delle imprese multinazionali che, in seguito, generano ulteriori tensioni sociali che, in alcuni casi, portano al radicamento del terrorismo islamista.
Una analisi oggettiva, fondata, che evita, con il machiavellismo e la durezza espressiva dei Decisori russi, da Pietro I ad oggi, la rfetorica dei “tiranni” cattivi per natura, o la maledizione di ideologie religiose ad memoriam che porta solo all’egemonia dei jihadisti.

Ci voleva coraggio, allora a Monaco come oggi, per creare un linkage tra i disastri dell’economia globale e il terrorismo jihadista; nonché tra globalizzazione, politiche unipolari e destabilizzazione sociale e politica del mondo.

Per Vladimir Putin, in sostanza, il mondo unipolare è finito con la crisi di quella che potremmo chiamare “la prima globalizzazione”, messa alle corde dalla espansione della Cina, dei BRICS, degli altri nuovi centri di sviluppo economico e politico autonomo che hanno visto, nel loro progredire, gli Usa impantanarsi in una crisi finanziaria che era direttamente derivata dall’overstretch, dalla sovraestensione geopolitica e finanziaria dell’unico vincitore della Guerra Fredda.

Oggi, vediamo che alcune delle profezie del Presidente russo si sono realizzate: la Cina si sta espandendo geoeconomicamente fuori dai suoi confini, sia con l’iniziativa One Road, One Belt, che determinerà uno sviluppo economico e una unificazione geostrategica di tutto lo Hearthland asiatico, sia con la Shangai Cooperation Organization, è destinata a passare da essere una “CEE asiatica” ad una vera e propria “NATO dell’Est”.

Gli Usa, con Obama e con chiunque verrà dopo di lui come Presidente, stanno abbandonando il Medio Oriente al suo destino. Che sarà la fine della nostra Europa, peraltro.
Il classico pendolo americano tra la “potenza necessaria” da spendere ovunque e la “casa sulla collina”, tra T. Roosevelt e la dottrina Monroe dell’”orto di casa”, da sfruttare peraltro sino al limite.
Anche Israele, che con Netanyahu ha rifiutato un incontro con Obama a Washington per il 18 Marzo, ha già riattivato i legami con Mosca.

La Knesset, il Parlamento dello Stato Ebraico, è andata in visita in Crimea agli inizi dello scorso febbraio, mentre il ministro degli Esteri russo Lavrov si è mostrato insoddisfatto del nuovo accordo bilaterale tra Israele e Turchia.

Israele fa una sua Strategia Globale, che è la ripetizione del vecchio divide et impera nello spazio arabo, tipico della guerra fredda, e della sua naturale ambizione a divenire potenza regionale, ora che il mondo islamico si scopre in guerra contro tutte le sue molteplici anime e poteri.

Gerusalemme oggi controlla attentamente le infrastrutture difensive sul suo confine siriano e mentre riteneva, all’inizio delle ostilità, che Bashar el Assad fosse l’”anello debole” dell’asse pro-iraniano, le successive evoluzioni del quadro strategico in Siria hanno fatto sì che Israele non abbia più intenzione di sostenere i c.d. “ribelli moderati”, una posizione, questa, all’epoca passivamente ereditata dagli Usa.

Anche Washington, con la Nato, credeva che il sostegno russo all’Esercito Arabo Siriano sarebbe stato tecnologicamente e strategicamente irrilevante ma la realtà, con le reti coperte del Baath già operanti a Raqqa, la capitale del “califfato”, e le forze di Assad a pochi chilometri da quella città e ormai poste tutte intorno a Aleppo, la chiave del nesso tra l’Isis e la Turchia, ci indica ben altro svolgimento dei fatti.
La Federazione Russa, con le azioni in Siria, si è dimostrata un avversario credibile dell’Alleanza Atlantica, mentre la Nato è ormai priva di una strategia in Medio Oriente e nel Maghreb che vada oltre la vecchia retorica del peacekeeping.

Quindi, è del tutto probabile che si manifesti un nuovo asse Mosca-Gerusalemme, grazie anche agli investimenti russi e cinesi nell’hi-tech israeliano, il più evoluto al mondo.

Un legame che, come è già avvenuto, riempie i vuoti lasciati dalla vecchia egemonia nordamericana, che ormai si ostina a mantenere una pressione intorno alla Cina, per limitarne la sua proiezione di potenza terrestre e marittima e, in un conato di inutile guerra fredda, di accerchiamento della Federazione Russa.

Le Filippine hanno offerto sei nuove basi agli Usa, mentre la Cina ha costruito una sua nuova base a Gibuti e l’America sta costituendo una rete di Forze Speciali che, partendo dall’Eurasia e dalla Cina, è mondiale per il suo outreach e la sua utilizzazione.

Viene qui in mente la battuta di John Maynard Keynes, “la più grande difficoltà nasce non tanto dal persuadere la gente ad accettare le nuove idee, ma ad abbandonare le vecchie”.
Ecco, la questione nasce dall’accerchiamento dell’Eurasia, come stanno facendo gli Americani, o dall’utilizzo russo, secondo la tradizione della geopolitica anglosassone, dello Hearthland eurasiatico come polo di espansione ed egemonia della nuova Russia (e della Cina contemporanea di Xi Jinping).

E’ Putin, oggi, il seguace più attento del geopolitico americano Spykman, uno dei maestri del containment contro l’Urss, che privilegiava i “bordi” delle grandi masse continentali mondiali.
Oggi peraltro sia la Cina che Mosca tendono ad espandersi nel proprio estero vicino al fine di interdire l’ordine unilaterale di Washington, sia per mezzo dell’economia, data l’uscita progressiva di Pechino dal ruolo di primo acquirente dei titoli di Stato USA, sia con la “presa” del centro nevralgico del Medio Oriente da parte della Russia.

Entrambe le nuove potenze, che vogliono diventare i poli di riferimento di un nuovo mondo multipolare, stanno dismettendo dollari e acquistando oro, mentre ormai lo squilibrio interno ai mercati mondiali permette alla Cina contratti in yuan-renminmbi con i Paesi emergenti e consente alla Russia di vendere petrolio e gas alle piccole potenze “terze” e alla stessa Cina, compensando l’embargo imposto da USA e Gran Bretagna.

Quindi, si può immaginare una nuova distribuzione delle polarità strategiche nel mondo del prossimo futuro.
E’ un asse che va da Mosca, punto di forza ad Ovest della nuova Via della Seta cinese verso il Medio Oriente e la UE, per una interdizione in Siria dell’asse sunnita filo-USA, con un nuovo ruolo autonomo di Israele.

Mosca ha ancora paura del Global Strike statunitense, con o senza il supporto della Nato.

Peraltro, fin dalla Conferenza di Monaco del 2007, per Mosca è essenziale il decoupling tra la potenza dell’Alleanza Atlantica, che Putin vede come comparto della strategia globale USA, e proiezione di potenza autonoma degli Stati Uniti.

La Federazione Russa, poi, si collegherà stabilmente all’India, per espandere il proprio mercato internazionale, e poi alla UE, ormai in via di separazione strategica, se e quando l’Europa farà una politica estera efficace, dagli USA, per poi dirigersi nelle aree non ancora penetrate dal blocco occidentale.
Si tratta dell’Artico, poi della quota russa dell’Antartico, obiettivo primario della nuova dottrina marittima russa fino al 2020, infine del suo estero vicino, che Mosca vede destabilizzato dalla dottrina delle “rivoluzioni colorate” Usa.

L’espansione della Nato, peraltro, è letta a Mosca come la minaccia primaria agli interessi strategici russi, nelle nuove dottrine militari in atto nelle FF.AA. russe.
Destabilizzare quindi il Rimland dei grandi aggregati continentali per colpire direttamente Mosca o Pechino? Ci interessa davvero, in Italia e alla UE? Ritengo proprio di no.
Un elemento particolare è, per la dottrina strategica russa, il dato culturale e simbolico.

L’Eurasianismo è la chiave di volta della questione geoculturale russa.
Il mondo sovietico ha sempre visto una continuità culturale tra l’Occidente europeo e la “Terza Roma”, l’erede, nella teologia politica degli ultimi Zar, della vera tradizione di un Occidente tradito e dimenticato, nelle sue radici profonde e spirituali.

Perfino la rivoluzione bolscevica, molto tempo dopo Pietro I e lo zar Alessandro II, manteneva il mito della equiparazione, anche per via violenta, della vecchia Russia al suo naturale legame con lo spirito dell’Occidente, fusosi con le tradizioni popolari e “orientali” del Narod, del “popolo” russo, visto come radice spirituale della Nazione, della sua specificità ma anche della sua eredità di fusione tra Occidente e Oriente.
L’Eurasia filosofica oggi è quindi un modello di autonomia culturale e strategica della Russia di Vladimir Putin, un tentativo di interconnessione culturale tra penisola eurasiatica e Hearthland slavo.
Il tutto per creare un “intorno” geoculturale e militare riferibile ad una Russia divenuta ancora una grande potenza e capace di svolgere, attraverso lo spirito russo e la sua autonomia culturale, la sua funzione di ponte tra le nazioni e le tradizionali aree geopolitiche.

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