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L'analisi

L’Iran ha bisogno di un boom economico per riequilibrare il disagio giovanile

Giancarlo Elia Valori, Honorable de l’Académie des Sciences de l’Institut de France, traccia un'analisi sulle recenti elezioni in Iran.

Intanto, occorre chiarire che la divisione tra “riformisti” o “liberali” da una parte e “conservatori” o addirittura “fondamentalisti” dall’altra, nel panorama iraniano, non ha senso alcuno.

Entrambe le famiglie politiche sono legate alla memoria e all’insegnamento dell’Imam Khomeini, che fu un leader politico in quanto fu un innovatore nel campo dello sciismo duodecimano.
Per l’Imam della rivoluzione del 1979 che, peraltro, definì appena al potere il nucleare iraniano ereditato dallo Shah “un segno del diavolo”, salvo poi cambiare idea, il fine della Profezia, che per Khomeini è eguale alla ragione umana, “è quello di guidare tutta l’umanità verso la costituzione di una società giusta attraverso l’applicazione delle leggi divine”.
Per l’Imam della rivoluzione sciita, quindi, diversamente da quello che accadeva nella antica tradizione quietista di entrambi i filoni dell’Islam, sunnita e sciita, “l’Islam è una religione politica, ogni suo aspetto è politico, perfino il suo culto”.
Quindi, durante il periodo dell’”occultamento dell’Imam Ultimo”, che è questo che stiamo vivendo, i faqih, i “dottori della legge”, devono formare uno stato islamico.

Insomma, il potere politico è il dovere religioso dei faqih, è questo il fondamento del famoso velayat-e-faqih, il “potere del giurisperito”.
L’insieme dei faqih rappresenta, per l’Imam Khomeini, l’Imam Occultato su questa terra fino alla sua apparizione-disvelamento.

E quindi l’insieme dei “dottori della Legge” hanno in solido la stessa autorità e responsabilità che, su questa terra, esercitavano il Profeta Muhammad e i primi Califfi “ben diretti”.
Sempre per citare Khomeini, “lo Stato islamico non è tirannico né assoluto. Non è costituzionale o incostituzionale nel senso comune del termine, ma lo diventa nel momento in cui i suoi legislatori sono sottoposti alle regole e alle restrizioni poste dal Corano e dai Detti del Profeta. Sono quest’ultime le leggi e le norme che devono essere sancite ed esercitate. Da questo punto di vista, il governo islamico è il potere della Divina Legge sul popolo”.

Tutti i membri del Parlamento iraniano e delle altre istituzioni elettive o meno agiscono all’interno di questa rete di valori, principi, prassi giuridiche e coraniche, inutile pensare ad una occidentalizzazione tramite la liberalizzazione, come immaginano alcuni analisti occidentali.

Oppure ad una spaccatura del regime sciita tra occidentalisti e “reazionari” perché, nelle classi dirigenti iraniane, la questione vera è come usare l’Occidente, non come farsi usare da esso.
Pensare quindi ad una specifica teocrazia “dell’attesa” come quella dello stato sciita iraniano, caso unico nella teologia politica, come a un sistema che si divide tra “liberali” e “conservatori”, qualunque cosa questi due termini possano significare in Occidente, è segno di massima ingenuità, per chi si appresti ad interpretare i risultati delle elezioni iraniane del 2016.

La Lista della Speranza, il “Secondo Passo” l’unica coalizione, diretta da Mohammed Khatami, che appoggia apertamente i cosiddetti “riformisti”, è un assemblaggio di partiti o liste come il Consiglio per il Coordinamento delle Riforme, il Partito della Fiducia di Mehdi Kharroubi, l’Unione del Partito del Popolo Islamico, che è il braccio politico, di recente formazione, di Hassan Rowhani e, infine, i Seguaci del Velayat legato a Ali Larjiani, già capo delle trattative sul nucleare (e classificato “conservatore”) e attualmente presidente del Parlamento.

I gruppi politici alleati al “Secondo passo” il che ha un gran significato in elezioni a due turni come quelle iraniane, sono l’Assemblea degli studiosi e dei ricercatori del Seminario di Qom, l’Associazione del Clero Combattente, l’Associazione dei seguaci della linea dell’Imam.
E ben altri 24 gruppi minori, è bene ricordarlo, tra i quali l’Associazione Islamica delle Donne e il Partito del Lavoro islamico.

Questo partito-coalizione ha raggiunto, sullo scrutinio di 239 seggi, il 28,62%, con 83 seggi al Parlamento.
La “Coalizione dei Princìpi” che l’Occidente gabella, specchiandosi come Narciso, come “conservatrice” è formata da una frazione dell’Associazione del Clero Combattente e dal Partito della Coalizione Islamica e da altri quattro gruppi minori.

E’ arrivata a 64 seggi al Majlis con il 22,06% dei suffragi.
La Coalizione della Voce del Popolo di Ali Motahari, che all’inizio si chiamava la “Coalizione dei Critici del Governo”, è nata in polemica con il “conservatore” Ahmadinedjad.
Cugino di Ali Larjani, che ora sta con un suo partito nella coalizione vincente, Motahari è figlio di un faqih ed ha caratteristiche politiche liberal-conservatrici.
La Lista di Motahari è arrivata al 3,44% e si è aggiudicata dieci seggi, ma è difficile collocarla nel normale asse downsiano destra-sinistra che usiamo nei sistemi derivati dalle rivoluzioni americana e francese.
Gli Indipendenti veri e propri, peraltro, sono molti. Ben 55 parlamentari, che possono tranquillamente sostenere l’uno o l’altro schieramento, che a noi appare come progressista o conservatore.
Le minoranze religiose ammesse, Ebrei, Zoroastriani, cristiani Assiri, Caldei, Armeni hanno raggiunto i loro cinque seggi costituzionali e raccolto l’1,75% dei suffragi.
Per l’Assemblea degli Esperti, l’elemento controllore secondo il velayat-e-faqih del Parlamento, 88 membri che sceglieranno il prossimo Rahbar, il leader supremo, i risultati sono ancora più complessi da analizzare.
Ben 27 seggi sono andati alla “Coalizione dei Principi”, mentre i “riformisti” del Secondo Passo hanno raccolto 20 seggi.
Ben 35 candidati, però, erano sostenuti da entrambe le coalizioni che a noi piace dipingere con i nostri colori.
In termini di analisi delle coalizioni, nell’Assemblea degli Esperti sono entrati 19 mujtahid direttamente votati dalla coalizione “Secondo Passo”, 27 sono stati eletti con i voti di altre liste non apparentate ai “progressisti”, per un totale di 46 “esperti” che risponderanno, possiamo immaginare, ad entrambe le tradizioni politiche. Ammesso che esistano.
L’Associazione del Clero Combattente ha 5 esperti direttamente eletti ma ben 51 votati anche da altri gruppi, compresi molti del campo che noi chiamiamo progressista.
Fu fondato per abbattere lo Shah, il “Clero Combattente”, nel 1977, prima della Rivoluzione Islamica, e i suoi primi leaders si chiamano Ali Khamenei, attuale Capo Supremo, Ali Akbar Rafsanjani, che oggi vediamo leader di altre liste progressiste, Morteza Mohtahari, il padre dell’attuale capo della lista “La Voce del Popolo”.
Il gruppo ha oggi 56 membri nell’Assemblea degli Esperti, il 64%, il che riequilibra molto dello spostamento rpogressista del Majilis.

La Associazione degli Insegnanti del Seminario di Qom ne ha invece eletti, di Esperti, 3 in proprio e ben 51 in collaborazione con altre liste che li “portavano”.
E’ il gruppo all’origine della rivoluzione del 1979, fondato dagli studenti dell’Ayatollah Khomeini nel lontanissimo 1961, quando lo Shah sembrava inattaccabile e davvero, secondo il suo nome iranico, “Re dei Re”.
Nella città di Teheran, come è facile immaginare, gli “Esperti del Popolo” hanno raggiunto una facile vittoria.
Ma qui la divisione, come in altri Paesi, compresi quelli occidentali, è tra città e campagna, quella frattura che ha dato origine al capitalismo in Occidente e ha distrutto il socialismo centralista in URSS e, per altri versi, in Cina.
Molti degli avversari personali e dei concorrenti di Rowhani sono, comunque, stati esclusi dal Parlamento o dall’Assemblea degli Esperti, e quindi si tratta, per il Presidente in carica, di utilizzare questo surplus di potere.
Il punto centrale della politica di Rowhani è l’economia e, soprattutto, l’effetto geopolitico della prevista espansione economica iraniana dopo l’accordo con il P5+1.
L’Iran ne ha bisogno, di un boom economico, per riequilibrare il disagio giovanile (che porta alla sua “occidentalizzazione”) e aggiornare il sistema produttivo, impigrito e invecchiato da una economia quasi completamente statizzata.
Il Presidente privatizzerà, in prima battuta, il settore automobilistico, ma ha poi  comprato una flotta di 118 Airbus per la cifra di 25 miliardi di Usd.
La discussione politica in Iran, comunque, non riguarda le riforme, ma il loro ritmo e forma.
E soprattutto il loro effetto politico nei rapporti con gli USA ed alcuni altri Paesi occidentali. Nessuno vuole, nel Majlis o tra gli Esperti, un controllo USA della trasformazione industriale iraniana e della sua recentissima apertura al “mercato-mondo”.

Gli Investimenti Esteri Diretti sono oggi a 4,88 mld. di Usd, ma Teheran ha elaborato un Piano di Sviluppo 2016-2021 che calcola investimenti necessari per 361 miliardi di Usd, di cui 204 possono essere reperiti in Iran, ma il resto deve venire da Paesi o privati esteri.
Se quindi l’Iran utilizza il JCPOA per diventare la più grande popolazione ed economia ad essere globalizzata dopo la caduta dell’URSS, gli effetti geopolitici saranno prevedibilmente questi: aumenterà l’impegno nel Grande Medio Oriente, ma solo in correlazione con Federazione Russa e Cina, contrasterà la politica di basso prezzo del barile diretta dalla Arabia Saudita per “punire” USA e Russia, creerà una propria area di influenza sciita che non porterà alla guerra contro i sunniti, ma ad un continuo attrito con i sauditi e i loro alleati.
La concorrenza tra Iran e sauditi sarà forte soprattutto nell’attrarre FDI, Investimenti Esteri Diretti, che stanno arrivando a Teheran dopo la firma del JCPOA, e dopo che i sauditi hanno per la prima volta aperto ai FDI nel giugno 2015.
Il Piano succitato parla di una crescita del PIL di oltre l’8% annuo, un tasso “cinese”, ma è molto probabile che, chiusasi temporaneamente (ma è vero?) la direzione del nucleare militare, l’Iran gestirà un build-up militare, finanziato dalla crescita economica, che seguirà i criteri tradizionali: il primato della guerriglia e delle “strategie ibride”, gestito dai Pasdaran, e il sistema missilistico ICBM.
Gli obiettivi strategici saranno quelli di un rafforzamento del proprio ruolo regionale e la gestione politica delle numerose minoranze sciite sparse nell’universo sunnita.
Inoltre, il nesso tra crescita economica e rimilitarizzazione iraniana sarà utilizzato per rilanciare i rapporti con Mosca, permettere a Pechino la sua espansione pacifica in Medio Oriente e nel Corno d’Africa, infine come guardiani della futura nuova “Via della Seta” programmata da Xi Jinping fin dal 2013.

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