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A cosa serve la strategia satellitare della Corea del Nord

Il 7 Febbraio scorso, Juche 105, ovvero 2016, il leader della Corea del Nord Kim Jong Un ha fatto lanciare un satellite per l’osservazione terrestre Kwangmyonsong-4. Tale lancio è parte del piano quinquennale per lo sviluppo aerospaziale di Pyongyang, un progetto al quale il leader nordcoreano appone una estrema rilevanza. E’ l’altra parte, la più importante e tecnologicamente autonoma, del sistema militare non-convenzionale della Corea del Nord.

Il missile tristadio che portava il satellite è stato lanciato dal centro spaziale Sohae posto nella provincia di Cholsan, nell’area del Pyongyan settentrionale, alle ore 9.00 del 7 Febbraio, entrando poi nell’attuale orbita alle 9.09:46. Il satellite gira intorno all’orbita polare a 494,6 km. di altitudine del perigeo e a 500 chilometri di altitudine dell’apogeo, e l’angolo di inclinazione è di 97,4 gradi. Il ciclo satellitare è di 94 e 24 secondi. La strumentazione messa in orbita riguarda soprattutto meccanismi di misura e apparecchi per le telecomunicazioni.

Peraltro, dopo la separazione degli stadi del vettore, il terzo componente del missile si è immediatamente ridotto in circa 270 frammenti, per far sì che la Corea del Sud non lo scoprisse e potesse quindi dedurre le sue caratteristiche.

Il primo stadio è caduto nell’area che la Corea del Nord aveva indicato all’Organizzazione Marittima Internazionale, il secondo è arrivato al largo delle coste orientali delle Filippine. Il satellite “Stella Splendente” (questo appunto significa il termine in lingua coreana) ha perfino sorvolato lo stadio in cui si svolgeva il Superbowl un’ora dopo la conclusione di quella manifestazione sportiva, in una zona vicinissima alla Silicon Valley.

Il missile Unha che ha inviato nello spazio la “Stella Splendente” è peraltro una versione del Taepodong-2, il vettore nucleare che arriva a colpire obiettivi a 4000-4500 chilometri di distanza. Un ICBM quindi, un Intercontinental Ballistic Missile, il che ha subito messo in allarme il Giappone, gli USA e, naturalmente, la Corea del Sud.

A cosa serve comunque la struttura satellitare, oltre a dimostrare un’alta qualità raggiunta dalla scienza e dalle tecnologie di Pyongyang?

Dalle notizie provenienti dalla Corea del Nord, il satellite monitorerà le condizioni meteorologiche e esplorerà le risorse forestali e tutte le disponibilità di materie prime che interessino comunque il governo di Pyongyang.

elia valori

L’altro satellite, già in orbita, è tarato per la sola gestione delle telecomunicazioni.

Ma, poi, a cosa serve la strategia globale missilistica e nucleare di Pyongyang, oltre che ad aumentare, ovviamente, il prestigio e la sicurezza di quel regime?

Possiamo ipotizzare razionalmente alcune motivazioni. Si tratterebbe, in primo luogo, di una azione militare o tecnologica finalizzata a ricevere particolari concessioni sul piano diplomatico e interazionale, per stabilizzare il proprio sistema politico. Pyongyang ha paura di liquefarsi nella globalizzazione della sua area geopolitica, di perdere quindi privilegi strategici, militari, economici che ora le permettono il suo grande build up militare.

Tanta tecnologia missilistica e nucleare, quindi, per equalizzare la minaccia rispetto a paesi, a cominciare dalla Corea del Sud, che mantengono un assetto finanziario e produttivo certamente più rilevante di quello di Pyongyang.

In secondo luogo, per la Corea Settentrionale l’uso delle armi evolute e la costante minaccia del loro uso significa internazionalizzare forzosamente la storica crisi dell’intera penisola coreana, ancora divisa al 38° parallelo; in modo da porre questo problema in cima all’agenda sia degli USA che della Cina.

Il mio amico Bob Gallucci ricorda bene che la trattativa con la Corea del Nord, nel 1994 e nel 2003, era fondata sulla relativa affidabilità e razionalità del regime di Pyongyang, che poteva accettare una riduzione del suo arsenale atomico in cambio della costruzione di una grande centrale nucleare. E, soprattutto, del riconoscimento della sua stabilità e autonomia politica.

Il deal di Gallucci fallì, anche per la resistenza del suo paese, gli USA, ad accettare una linea di trattativa con la Corea Settentrionale che, infatti, si ritrasse alla fine dall’accordo definitivo. Pyongyang mantiene una massima attenzione allerta riguardo alle mosse degli Stati Uniti; e ogni azione del regime nordcoreano è sempre un messaggio in codice agli USA, per segnalare chiaramente che Pyongyang può trattare seriamente solo ad una condizione: quella di rientrare a pieno titolo nel sistema asiatico, con dignità pari a quella di Giappone e Corea del Sud. Ma solo con la mediazione esplicita di Cina, Stati Uniti e, soprattutto della Federazione Russa, l’unica che può davvero mediare un accordo efficace tra Pyongyang e le maggiori potenze sia globali che dell’area.

Solo Mosca può interagire con la DPKR in modo da creare fiducia nelle controparti coreane sulla affidabilità e stabilità delle trattative; e solo la Russia può garantire, anche militarmente, gli effetti di un futuro accordo. Mosca è abbastanza lontana per non impensierire le potenze regionali, è affidabile per Pyongyang che non l’ha mai posta nel novero dei suoi nemici, è credibile come potenza sia per gli USA, che non possono certo fare molto con la DPKR, che per la Cina, che non è impensierita da questo nuovo ruolo russo di garanzia nella penisola coreana la DPKR ha poi la necessità primaria di stabilizzare il proprio regime politico, che non possiede la base economica per una proiezione di potenza pacifica.

Il sistema militare di Pyongyang è poi tarato per evitare i possibili tentativi di destabilizzazione politica interna diretta da avversari esterni.

Nella storia del potere nucleare militare, quello di Pyongyang è il primo caso in cui queste tecnologie di difesa servono soprattutto a mantenere, appunto, il proprio sistema politico interno. Naturalmente, il potere nucleare della Corea del Nord è anche in funzione compensativa: equalizzare, con il proprio armamento ABC non-convenzionale, le inevitabili debolezze tattiche e logistiche del proprio sistema militare convenzionale.

Che, peraltro, deve diminuire sempre di più di volume per rendere disponibili le risorse necessarie allo sviluppo dell’economia e, si sa, la minaccia nucleare costa meno del tradizionale build up convenzionale.

Il primo test nucleare della DPKR, la Corea del Nord, risale all’ ottobre 2006. Fin da subito, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU emette una sequenza di risoluzioni che dura fino al 2013. Le sanzioni economiche, dure e costanti, hanno certamente aumentato i costi del programma nucleare di Pyongyang, e sono state un buon esempio per tutti gli stati che volessero imitare la strategia “isolazionista” della DPRK.

Ma, nel caso specifico della Corea del Nord, il sistema sanzionistico non ha prodotto alcun risultato rilevante. Anzi, Pyongyang ha affermato, nel 2015, l’obiettivo del byungjin, dello “sviluppo parallelo” dell’economia interna e del deterrente nucleare. Le sanzioni rallentano, in linea di principio, lo sviluppo militare che si vuole impedire, ma non lo bloccano. Basta centralizzare, come la Corea del Nord ha fatto, la programmazione economica e militare e operare fuori dai canali internazionali di acquisizione delle tecnologie “sensibili”.

Inoltre, ricordiamo che le sanzioni dirette a Pyongyang erano tarate per un “operatore politico razionale”. Ovvero, i benefici insiti nel trattare, per la DPKR, avrebbero superato i costi di una azione autonoma e di un blocco delle trattative. Non è stato così: i sistemi politici non si muovono sempre secondo la regola politologica della rational choice, della “scelta razionale”; ma hanno spesso l’interesse a operare come free rider, come uno che guadagna di più dal rifiuto isolato dei benefici dell’azione collettiva, secondo la teoria di Mancur Olson che dalla ripartizione degli utili dell’azione collettiva stessa.

E’ sempre il vecchio problema di cui parla Glaucone nella Repubblica di Platone (libro 2, 360b-c) se l’obbedienza alle leggi sia collegata intimamente alla inevitabilità delle sanzioni. Se è possibile talvolta non subire la “dura incudine della legge”, diviene razionale anche operare come se la norma non esistesse, da free rider, qualora si calcoli che l’utile dell’azione isolata sia ben maggiore della perdita subita dall’applicazione della legge.

In ogni caso, le sanzioni messe in essere dagli USA contro la DPKR hanno sì aumentato i costi dell’eventuale procurement illecito all’estero di tecnologie nucleari, per Pyongyang, ma non l’hanno reso impossibile. E questo perché, in primo luogo, è possibile agire sul piano della legalità internazionale, anche per la Corea del Nord, poi per un altro importantissimo motivo: la non collaborazione della Cina.

Pechino, è ovvio, non ha alcuna intenzione di manomettere i suoi equilibri con Pyongyang. La DPKR è, per la Cina, un futuro ma pieno collaboratore per la sua espansione economica verso l’Ovest, con la Belt and Road Initiative, e Pechino non ha la minima intenzione di destabilizzare un’area che creerebbe per la Cina pericoli demografici, di sicurezza, economici e strategici inimmaginabili. La Corea del Nord è appunto una belt, una “cintura” strategica per la difesa dai “cani stranieri” dei confini cinesi sudoccidentali; e un asse inevitabile per la protezione delle sue linee nel Mar Cinese Meridionale.

Alla Cina, poi, non fa alcuna paura l’arsenale nucleare della DPKR Pechino sa benissimo che potrebbe rispondere in modo immediato e risolutivo ad ogni possibile attacco proveniente dal territorio nordcoreano.

Quindi, per convincere la Cina, occorre passare da un vecchio regime sanzionistico ad una trattativa più vasta; e quindi a un riconoscimento parziale di uno status strategico e economico di Pyongyang nel sistema regionale asiatico e in rapporto al Giappone (e a Taiwan, peraltro).

Se, poi, anche all’interno dei Six Party Talks tra DPKR, USA, Cina, Giappone Russia e Corea del Sud del 2003-2009 le sanzioni non hanno avuto la possibilità di creare un filo rosso diplomatico a breve-medio termine, il sistema sanzionistico diviene inefficace e inutile, dato che Pyogyang mette semplicemente in costo la sua esistenza, e la minaccia implicita nelle sanzioni perde di efficacia.

Se non si sa mai verificare l’effetto di una trattativa, tanto vale non farla.

Per ricominciare a parlare efficacemente con la Corea del Nord, si deve chiarire esplicitamente, e si deve quindi far credere davvero a Pyongyang che, in primis, nessuno è interessato ad un regime change nella DPKR. In una seconda fase, dopo una serie di confidence building operations, si tratta di impedire che la Corea Settentrionale usi sempre, come finora è accaduto, la carta più pesante in ogni tipo di quadrante strategico e di trattativa.

Il rodomontismo geopolitico può essere razionale oggi, ma diverrebbe autolesionistico, per Pyongyang, in futuro. Fare in modo, quindi, che un nuovo clima di sicurezza regionale renda possibile ai dirigenti della DPKR una politica estera meno muscolare.

Non si deve chiedere a Pyongyang la sua completa denuclearizzazione, ma si deve mettere in parallelo l’arsenale non convenzionale nordcoreano con la deterrenza cinese e l’apertura del regime nordcoreano all’ economia globale in termini positivi. Sempre con la mediazione russa.

Se tutto questo non accadrà, allora per la DPKR essere un free rider diverrà una scelta razionale.

Nella foto Giancarlo Elia Valori col presidente Kim Jong II, nel 1994

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