Titolo: Taxi Teheran;
Regia: Jafar Pahani;
Genere: drammatico;
Durata: 82 minuti;
Voto: 7,5;
Attualmente in visione: Conca Verde;
"Le restrizioni sono spesso fonte d’ispirazione per un autore poiché gli permettono di superare se stesso. Ma le restrizioni, a volte, possono essere talmente soffocanti da distruggere un progetto e annientare l’anima dell’artista. Invece di lasciarsi andare e di lasciarsi pervadere dalla collera e dalla frustrazione, Jafar Panahi ha scritto una lettera d’amore al cinema.
Il suo film è colmo d’amore per la sua arte, la sua comunità, il suo paese e il suo pubblico". Poche parole avrebbero descritto meglio l’essenza di "Taxi Teheran" come quelle utilizzate da Darren Aronofsky – Presidente della Giuria del Festival di Berlino – che ha assegnato al regista iraniano l’ambito Orso d’Oro.
Un film coraggioso girato da un artista coraggioso. Nel vero senso della parola: "Taxi Teheran" è il terzo film che Jafar Panahi realizza dopo l’arresto nel 2010 per propaganda anti-islamica ed il conseguente divieto di realizzare film, pena la reclusione. Un film dove Panahi torna a mostrare clandestinamente le strade trafficate e polverose della capitale, nei panni di tassista pronto ad accogliere – e riprendere, con l’occhio fedele della telecamera piazzata sul cruscotto – i vari personaggi che nel corso della pellicola abitano la vettura, sorta di palcoscenico mobile oscillante tra fiction e realtà. Nell’ordine si susseguono: un’insegnante, un venditore di dvd pirata, un uomo (forse) in fin di vita con la giovane moglie, due anziane sorelle con pesci rossi al seguito, un’effervescente nipotina e un’avvocatessa poco incline ai metodi del sistema. Tutti attori non professionisti che – come Panahi – rischiano grosso nel prendere parte ad un film guarda caso privo di credits.
Questi incontri offrono lo spunto per riprendere svariati temi d’attualità e tratteggiare l’identikit di un paese affascinante ma allo stesso tempo pieno di contraddizioni. Si parla di giustizia, pena capitale, delinquenza, pirateria, censura e diritti delle donne; mantenendo (quasi) sempre un registro dai toni lievi e a tratti persino giocosi, che in pochi possono permettersi.
Attivismo cinematografico, dunque; ma non per questo ‘urlato’.
Al contrario: ai metodi rigidi ed austeri del sistema, che mira a deformare e censurare la realtà – se non altro quella più scomoda -, Panahi oppone lo sguardo pacato e silenzioso della telecamera, fedele riproduttore di autenticità. Come a dire che – proprio come recita una battuta alla fine del film – "Sulla gente di cinema si può sempre contare".
Fabio Viganò
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