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Grande Guerra, Pillola 61 Un anno di conflitto: innovazioni ed errori tattici fotogallery

A un anno dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale il bilancio parla di indubbie innovazioni tecniche alla quale fanno da contraltare madornali errori tattici: solo dopo stragi inimmaginabili i comandi avrebbero compreso di essere di fronte a un conflitto senza precedenti.

di Marco Cimmino

Una semplificazione, forse necessaria a scopo divulgativo, ma certamente fuorviante da quello storico, ha portato a coniare per la prima guerra mondiale la definizione di “guerra di trincea”, associando questo concetto ad un’idea esclusivamente statica del conflitto. Come spesso accade, uno slogan, un motto, un titolo ad effetto, assumono un valore quasi dogmatico, tanto che, nelle scuole e, talora, anche nelle università, si continua a trasmettere questa immagine cristallizzata.

Fin dall’inizio di questa raccolta di brevi interventi, si è, viceversa, cercato di affrontare le numerosissime (e, spesso, discordanti) tematiche legate alla guerra 1914-18 con la volontà di attenersi scientificamente ai fatti, senza soggiacere alle suggestioni di storiografie obsolete, ideologizzate o, semplicemente, canonizzate.

Quindi, arrivati ad un anno circa dallo scoppio del conflitto, siamo in grado di indicare già qualche sensibile differenza, rispetto alla vulgata: per cominciare, almeno i primi mesi di guerra conobbero un andamento strategico e tattico piuttosto plastico e variabile, che ci induce a considerare come conflitti strutturalmente differenti quelli che si combattevano sui vari fronti che, via via, si stavano delineando: una guerra ibrida, fra modernità e tradizione, ad esempio, fu quella che si combattè sul fronte occidentale, dove l’uso delle armi più moderne venne affiancato da tattiche ed atteggiamenti di matrice ottocentesca, quando non addirittura napoleonica.

Sul fronte orientale, date le enormi distanze, la logistica sfilacciata, la varietà paesaggistica ed orografica, la prima guerra mondiale si configurò come una sequenza di battaglie di tipo tradizionale, in cui entrambi i contendenti si produssero in avanzate e ritirate anche di portata strategica e di centinaia di chilometri di estensione: una guerra di movimento sul tipo della guerra civile americana, per capirci.

In Africa ed in Mesopotamia, il conflitto assunse spesso caratteristiche di guerriglia coloniale, salvo che nei casi in cui degli obiettivi primari, come i pozzi petroliferi o gli snodi logistici, imponessero operazioni su vasta scala: il carattere forse determinante di questi fronti fu quello dei rapporti con le popolazioni indigene e dell’origine dei comandanti, che erano spesso funzionari coloniali, per l’impero britannico, e militari di carriera per gli imperi centrali.

La guerra sul fronte serbo-austriaco ebbe andamento altalenante, mercè soprattutto gli errori marchiani commessi all’inizio dai comandanti imperiali: possiamo, però, anche qui parlare di una guerra di movimento, sia pure su scala più modesta, caratterizzata da scontri in un territorio aspro e difficile, molto più adatto ad una guerriglia che ad un conflitto in campo aperto. Ben presto, la superiorità austroungarica ebbe il sopravvento sul valoroso piccolo esercito del Karageorgevič, che venne evacuato dalla flotta italiana, come vedremo in un capitolo dedicato specificatamente a questo fronte.

Infine, la guerra sui mari, dapprima affidata ad una sorta di rimpiattino tra navi da corsa germaniche e flotta oceanica britannica, s’incanalò ben presto su di un binario ovvio ed inevitabile, che potremmo riassumere con un semplice concetto: se l’Intesa avesse mantenuto aperte le proprie vie marittime, avrebbe vinto la guerra, se la Germania glielo avesse impedito, le cose sarebbero andate diversamente.

Nell’Atlantico, dunque, si giocò la partita fondamentale della prima guerra mondiale: non il semplice Materialschlacht, che tanto piace agli storici anglosassoni, ma un vero conflitto planetario, in cui le fonti di approvvigionamento divennero l’equivalente delle armate e delle divisioni al fronte. Stabilito che, sulle rotte oceaniche, la superiorità inglese in termini di navi da battaglia era indiscutibile, la Germania si trovò, in pratica, costretta a giocare la carta della guerra sottomarina senza quartiere, ossia ad inibire il transito su quelle rotte a qualunque nave, pena il possibile siluramento. Va da sé che questo avrebbe fatto precipitare nel conflitto tutti quei paesi che godevano dell’indubbio vantaggio di commerciare coi belligeranti, Stati Uniti in primis: il che, puntualmente, avvenne.

Rimane da dire del fronte meridionale, ossia quello italo-austriaco: le caratteristiche geografiche del territorio imposero, in sostanza, una sorta di assedio prolungato, che non fu una vera guerra immobile, ma fu quella che ci piace definire una “guerra di vibrazione”: un’oscillazione brevissima, entro limiti di qualche chilometro e, talora, anche meno, fatta di attacchi, conquiste, contrattacchi e riconquiste, intorno ai tre perni della difesa austroungarica dell’Hermada, di Tolmino e di Gorizia. Una specie di microguerra di movimento o, se si preferisce, un tiro alla fune dagli esiti incerti: questa situazione di stallo venne interrotta bruscamente da Caporetto, per riproporsi sulla linea del Piave e del Grappa.

Il punto chiave, da un punto di vista dell’analisi critica di questo periodo, che va dall’agosto del 1914 all’estate del 1915, ci sembra sia quello della capacità dei comandi di leggere il conflitto in maniera differenziata e di adeguare alle diverse esigenze di fronti tanto lontani tra loro e tanto differenti per caratteristiche, logistica e modalità di combattimento, le proprie risorse e la propria scienza militare. Ci pare di poter dire che, salvo casi molto rari, questo non sia avvenuto: spesso, i comandanti di reggimento o di brigata, che si trovavano a ridosso delle prime linee o addirittura in prima linea, avevano una percezione realistica del conflitto, delle sue esigenze e delle necessità tattiche e tecniche.

I comandanti, dai divisionari in su, invece, non solo non cercavano di comprendere le mutate condizioni della guerra, ma si rifiutavano persino di visitare le prime linee, per non essere influenzati nelle proprie elucubrazioni dottrinali. Insomma, erano ancora fermi alla guerra con le bandierine colorate sulle carte geografiche. Questo atteggiamento rigido e conservatore produsse danni incalcolabili proprio all’inizio del conflitto, perché consumò in inutili combattimenti, spesso insensati agli occhi dei subalterni, le truppe meglio addestrate e più fortemente motivate dei diversi eserciti. Nel caso dell’Italia questo assunse proporzioni ancora più drammatiche, con il sacrificio dell’esercito permanente contro i reticolati e le mitragliatrici del San Michele o del Sei Busi.

Insomma, dopo un anno di guerra, possiamo annotare alcune indubbie innovazioni tecniche, come l’introduzione progressiva nei vari eserciti dell’elmetto d’acciaio, che ridusse enormemente le ferite al capo, l’aumento esponenziale delle piccole artiglierie e dei lanciabombe da trincea, l’adeguamento mimetico delle divise, l’alleggerimento delle buffetterie, l’incremento delle armi automatiche nei reparti.

Sul piano tattico, però, ci sarebbe voluto ancora molto tempo perchè si sviluppassero nuove tecniche d’approccio, d’infiltrazione, di sfondamento e d’aggiramento dei campi trincerati e fortificati. Il 1916 sarebbe stato l’anno delle grandi offensive: dello sforzo titanico da parte dei contendenti per vincere questo gigantesco braccio di ferro.

Solo allora, e dopo stragi inimmaginabili, i rispettivi comandi avrebbero compreso di essere di fronte ad un conflitto senza precedenti, che avrebbe necessitato di uno sforzo senza precedenti per arrivare alla vittoria. Ma, nel frattempo, le risorse umane si sarebbero, inevitabilmente, esaurite in quella che, nel 1917, a molti sembrava davvero una “inutile strage”.

Solo il 1918 avrebbe visto la vera affermazione della guerra moderna, con tecnologia e tattica militare finalmente parificate: tra i primi balbettanti tentativi e questa conclusione, però, si era creato un enorme camposanto, che accoglieva quasi nove milioni di soldati europei. E l’Europa, in fondo, giace proprio in quello spaventoso cimitero, che, oltre ai suoi giovani, ha visto seppellire la sua identità di continente.

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