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Musica

Il discomane

Van Morrison e i Toto: giovani brontosauri, ovvero gente che invecchia stra-bene

Non chiedete a Brother Giober d'essere obiettivo con Van The Man, ma questi "duetti" meritano quasi l'eccellenza: 4 stelle e mezzo (e ricordatevi il concerto a Brescia del 6 giugno). Non male nemmeno il ritorno dei Toto con un album di inediti: XIV, in cui spicca Orphan. Buon ascolto!

Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema

** se non ho proprio altro da ascoltare…

*** in fin dei conti, poteva essere peggio

**** da tempo non sentivo niente del genere

***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

 

 

ARTISTA: Toto

TITOLO: XIV

GIUDIZIO: ***1/2

Spiegarvi perché mi piacciono i Toto non è facile. In gioventù non incontravano i miei favori. Ritenevo la loro musica oltremodo complessa, influenzata da troppi generi diversi, tra cui anche il prog, un genere mai tra i miei preferiti. Con un certo snobismo li accusavo di un successo commerciale che mal deponeva rispetto alle loro presunte o affermate capacità artistiche: brani come Africa, buono per il popolo delle discoteche, come Hold the Line, appetibile per un pubblico ritenuto, a torto, non raffinato, o come Rosanna, smaccatamente pop, mi relegavano i Toto in un ambito artistico di serie B.

Qualche anno fa la svolta e l’avvicinamento, prima timido poi sempre più convinto, complice in particolare un album live che ancor oggi ascolto con molto piacere: Fallin’ in Between.

Tre anni fa ho poi avuto la fortuna di vederli dal vivo e in una festa organizzata prima del concerto di fare amicizia, ossia quattro chiacchiere, con il bassista di allora: Nathan East. La performance fu spettacolare, non solo tecnicamente, ma anche emotivamente e ancor oggi ho uno splendido ricordo della versione live di Human Nature, brano portato al successo da Michael Jackson ma composto da Steve Porcaro.

Ho atteso l’uscita di questo album con una certa impazienza, aumentata dopo le prime indiscrezioni della stampa che ne anticipavano i contenuti con commenti assolutamente positivi. E anche però con una certa diffidenza: difficile che artisti di quest’età conservino l’ispirazione degli anni d’oro, e quasi sempre la pubblicazione di un nuovo lavoro avviene perché vi è qualche scadenza contrattuale da rispettare.

In un’intervista appena rilasciata Steve Lukater ha raccontato, invece, che l’esigenza di un nuovo disco è nata senza alcuna pressione della casa discografica e, per quanto lo riguarda, dalle continue richieste dei brani dei Toto che riceveva nelle date del tour fatto come musicista del gruppo di Ringo Starr. La gestazione è stata poi del tutto tranquilla, dieci mesi di riunioni e prove senza alcuna copertura finanziaria ma solo per il gusto di tornare a suonare insieme e, in più, un gradito ritorno quello del bassista fondatore David Hungate.

La serenità del contesto è stata poi funestata dall’intervenuto decesso di Mike Porcaro, da tempo ammalato di Sla, avvenuto nel mese di marzo.

TOTO XIV è il primo album di inediti dal 2006, anno in cui fu pubblicato Falling in Between e sin dal titolo richiama TOTO IV, ossia l’album della consacrazione interplanetaria grazie a brani come Africa e Rosanna. Se proprio si vuole fare un confronto con quel lavoro, posso facilmente affermare che XIV non contiene singoli dalle medesime potenzialità, ma nell’insieme è un gran bell’album, elettrico, potente, con brani in molti casi sopra la media ed una varietà di stili che è un po’ un marchio di fabbrica e che forse, ma questo non ve lo so assicurare, il nome stesso della band vuole in qualche modo rivendicare.

La tecnica dei musicisti è ancora quella di un tempo, Lukater, Paich e Steve Porcaro sembrano proprio non risentire del trascorrere del tempo e ancor oggi riescono a dare alle composizioni un vestito sonoro sempre congeniale. Le voci magari risentono un po’ più dell’usura del tempo ed in special modo Paich sembra a volte un po’ fuori tono.

Dicevo delle canzoni, quasi tutte belle e godibili con qualche piccola eccezione: spesso i suoni sono un po’ di grana grossa e tronfi (Holy War), ma il rischio del pasticcio è presto evitato dalla melodia azzeccata o da un passaggio strumentale particolarmente azzeccato. I brani, nella maggior parte dei casi, hanno alle spalle una ricca strumentazione, i lidi musicali frequentati sono quelli di un certo rock duro con qualche infiltrazione prog (Running Out of Time) mentre a volte, e a sorpresa, sono nobilitati da suoni che lambiscono il jazz rock e che avvicinano il suono a quello di altri gruppi noti come Steely Dan (21st Century Blues) o Doobie Brothers.

C’è posto anche per qualche ballata di quelle che ti stendono: come Burn, il brano programmato ad essere il terzo singolo, dopo Orphan e Holy War, o come Unknown Soldier (For Jeffrey), un brano che ricorda da vicino le migliori cose dei Kansas o dei Thin Lizzy (non rabbrividite alcune loro canzoni sono proprio belle) per il continuo alternarsi tra temi musicali epici, melodie particolarmente azzeccate e dimostrazioni di virtuosismo tecnico mai però fine a se stesso.

Ancora The Little Wings è una ballata che della semplicità fa il suo marchio. Il brano composto da Steve Porcaro riesce tuttavia ad evitare il rischio di scadere nell’effetto “canzoncina” grazie ad una struttura melodica particolarmente riuscita e, alla fine, per nulla banale.

Da annoverare nel genere “ballate” anche All the Tears that Shine, un brano sin dal titolo un po’ troppo edulcorato. Il “rischio diabete” è decisamente alto, però se non ci badate tanto e se siete in un momento di particolare predisposizione emotiva potrebbe anche piacervi. Per darvi un’idea potrebbe essere, seppur meno riuscita, una nuova Human nature.

Chinatown è una canzone scampolo di registrazione degli anni ’80. Un brano pertanto ripreso ma non per questo da considerarsi uno scarto anche se il modo d’uso delle tastiere risulta un poco datato e troppo vicino a quello di alcuni successi del passato.

Fortune è sfuggente, sembra evolversi di volta in volta verso qualche direzione precisa che però non viene mai presa in modo deciso ed è proprio questa indeterminatezza, unita a un ritmo, a tratti, irresistibilmente funky grazie al bel lavoro del basso, che rende la track particolarmente accattivante, anche grazie a un solo di chitarra nel mezzo, particolarmente riuscito.

A chiusura del lavoro Great Expectations, un lungo brano di quasi sette minuti, solo voce e piano all’inizio e poi una lunga fuga strumentale sulle ali di suoni prog che forse nulla aggiunge al tutto anche se l’epicità del brano mi fa credere che nel medesimo il gruppo creda molto. Alle mie orecchie troppi suoni, troppi echi del passato e un po’ di confusione anche se qualche zampata di classe è possibile individuarla anche in questa canzone.

Infine il primo singolo destinato al mercato: Orphan è introdotta da un arpeggio di chitarra ed ha un inizio lento, ma poi prende quota per diventare una sorta di cavalcata elettrica, piena di ritmo, “ultra ballabile” e con un ritornello che ti entra dentro. Il resto lo fa il testo per nulla banale. Posso già prevedere sin d’ora che il brano rappresenterà uno dei momenti più applauditi del prossimo tour.

Un bel disco che non porterà forse nuovi fan ai Toto, ma che consoliderà certo la loro fama. Da ascoltare, senza pregiudizi.

Se non si vuole ascoltare tutto il disco: Orphan

Se non ti basta ascolta anche:

Jefferson Starship – Red Octopus

Todd Rundgren – Something/Anything?

The Tubes – What do You Want For Life

                                               

ARTISTA: Van Morrison

TITOLO: Duets – Re working the catalogue

GIUDIZIO: ****1/2

Impossibile per me scrivere di Van Morrison… in modo oggettivo. Perché lo adoro, perché mi emoziona come nessun altro, perché amo la sua voce e le sue canzoni straordinarie.

Come spesso capita agli amori più profondi, gli inizi della mia storia con lui furono difficili: comprai Astral Weeks all’età di 13 anni, forse troppo giovane per capirlo sino in fondo e quindi per alcuni anni ne trascurai l’ascolto. Poi però, dopo una trasmissione alla radio di Carlo Massarini, la passione mi travolse in modo incontrollato e a oggi possiedo tutti i suoi dischi che ancor ascolto con la stessa emozione di un tempo.

Quando ho letto di un disco di duetti francamente ho storto il naso: ma come l’ “orso” , lo scorbutico per eccellenza della musica cosa fa? Quello che molti brontosauri del rock, e non solo, fanno quando le vendite languono, il nome rischia di cadere nel dimenticatoio, ossia un disco di duetti, spesso con artisti improbabili.

Poi ho iniziato a leggere del lavoro e avuto notizia degli ospiti e allora, ancor prima di averlo sentito, ho iniziato a ricredermi.

Sin dal titolo e dal contenuto appare evidente l’intento che è quello di vestire a nuovo brani non tra i più noti. Mancano qui gli  hit più noti come Gloria, Moondance, Brown Eyed Girl, Caravan, ma francamente non se ne nota l’assenza.

Poi gli ospiti: non la solita fiera del “bollito” ma musicisti ancora straordinari e interpreti tutti dotati di voce superlativa. Non scelti a caso ma quasi sempre affini a Van The Man per ispirazione artistica come i vecchi Bobby Womack (per la verità defunto), Chris Farlow, George Fame, Mark Knopfler o i giovani, in alcuni casi solo artisticamente come Gregory Porter o, in altri anche anagraficamente, come Joss Stone; in mezzo un’altra manciata di artisti credibili e non in cerca solo di un palcoscenico qualunque, come George Benson, Mike Hucknall, Mavis Staple, insomma un vero e proprio “parterre de rois”.

Poi c’è la musica: brani bellissimi, arrangiamenti perfetti, una evidente voglia di divertire, di lasciare andare gli strumenti e le voci. Rock, R’n’b, soul, il tutto all’insegna del cross over della musica libera e senza confini.

Impossibile stare fermi e non emozionarsi ascoltando Some Peace of Mind, con la voce di Bobby Womack, le note saltellanti del piano, i soli di sax, il ritmo forsennato; impossibile non restare ammaliati dalle note di Higher than the World con la presenza di George Benson che doppia la voce di Van e che, con la sua chitarra, da quel tocco jazzy al brano rendendolo irresistibile.

Get on With the Show, con le tastiere di Georgie Fame, è un ritorno a sonorità degli anni ’60, ma è anche una ventata di pura allegria al pari di The Eternal Kansas City, con Gregory Porter, con i suoi suoni da vecchia band che suona standard jazz, i fiati che debordano e la voce magica dell’artista di colore che duetta, nel vero senso della parola, con Van. Cosa dire poi dei “soli “ di diversi strumenti che, all’improvviso, decollano all’interno del brano?

Wild Honey è invece pura “Peace of Mind” ed è interpretata insieme a Joss Stone, ossia una delle più belle voci dell’intero panorama musicale: un brano soffice, rilassato, perfetto per gustarsi in santa pace un momento di serenità.

Rappresenta, rispetto al contesto, un elemento di eccezione Irish Heartbeat, interpretata con la partecipazione di Mark Knopfler. Il brano ancora calmo e rilassato, si allontana dalle atmosfere jazzate di quelli che l’hanno preceduto per abbracciare musicalità più folk oriented. Comunque una delle più belle cose dell’intero lavoro.

If I ever needed Someone, ha l’anima del soul e non a caso l’ospite è Mavis Staples una delle voci più emozionanti che oggi si possa avere la fortuna di ascoltare. Il brano è denso, profondo, le voci duettano che è un piacere. Rispetto ad altri cento brani simili a questa composizione, qui a fare la differenza, abissale, è proprio la qualità dell’interpretazione.

Suoni che mi riportano agli anni ’80, a quel meraviglioso primo album dei Dexy’s Midnight Runners sono quelli di Real Real Gone. Qui il ritmo è serrato, i fiati sono all’unisono e la voce, perfetta, è quella di Michael Bublé.

Streets of Arklow è cupa, profonda, con il piano e il flauto a svolgere un lavoro di cesello: in questo caso è la voce di Mike Hucknall a dare la giusta enfasi ad un brano per nulla facile, ma denso di blues, e d alla fine emozionante. Ascoltare per credere il solo di chitarra nel mezzo.

È la volta di Nathalie Cole, forse l’artista meno a suo agio, ad essere protagonista di These are the Days, non a caso uno dei brani meno riusciti dell’intera raccolta, ma sempre di qualità ben superiore alla media.

Fire in the Belly vede la partecipazione di Steve Winwood e, soprattutto delle sue tastiere. Il brano è in puro “Van Morrison Style”, ossia un misto tra soul, ‘r’n’b, suoni anni Sessanta. Quando nel mezzo irrompe la voce di Winwood, il tasso dell’emozione sale vorticosamente e quando i due iniziano a cantare insieme… beh, allora vi sfido a resistere impassibili.

Chiude il lavoro How can a Poor Boy, con Taji Mahal, e siamo in pieno nel blues. Il brano è caratterizzato dal suono dell’armonica e dal dialogo delle voci ancora una volta perfette. Il crescendo del brano è poi puro spettacolo.

Cosa dirvi d’altro? Per me un album imperdibile! Quattro stelle e mezzo.

Ancora una volta, grande Van che se non la sapete ancora sarà a Brescia il 6 giugno.

Se non si vuole ascoltare tutto il disco: Some Peace of Mind

Se non ti basta ascolta anche:

Eric Clapton – Live from Madison Square Garden

Joss Stone – Introducing Joss Stone

Boz Scaggs – Memphis

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