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Il progetto

Profughi volontari in città: “Vogliamo dire grazie a Bergamo”

Dal quartiere della Malpensata ha preso il via un progetto di volontariato che coinvolge i profughi accolti al Gleno e alla casa Amadei. L’iniziativa, che li vedrà impegnati nella pulizia di parchi e aree verdi urbane, progressivamente si estenderà in tutta Bergamo. Quattro giovani profughi volontari - Mamadou, Mohammed, Djwara e Boubacar: “Contribuire alla cura della città è un modo per ringraziare per l’accoglienza ricevuta”.

Ha preso il via dal quartiere della Malpensata un progetto di volontariato che coinvolge i profughi accolti al Gleno e alla casa Amadei. L’iniziativa, frutto di un protocollo d’intesa tra prefettura, Comune di Bergamo, Caritas diocesana, sindacati e terzo settore, li vedrà impegnati nella pulizia di parchi e aree verdi urbane e, progressivamente, si estenderà in tutto il capoluogo orobico.

Il direttore della Caritas diocesana di Bergamo don Claudio Visconti spiega: “Diamo il via a questo progetto che parte dalla Malpensata ma, poi, si estenderà anche agli altri quartieri cittadini. Ad animare questa progettualità sono sostanzialmente tre motivazioni. Innanzitutto, la volontà da parte dei profughi di ringraziare per l’accoglienza gratuita ricevuta, che offre loro un pasto caldo, un luogo in cui dormire e i corsi di italiano: tutti questi servizi li incentivano a ricambiare contribuendo alla cura della città, aderendo volontariamente alla proposta. In secondo luogo, l’importanza di essere attivi, trascorrendo le giornate svolgendo un’attività che possa anche aiutarli ad imparare un lavoro, a stare all’aria aperta e a integrarsi meglio con l’ambiente in cui si trovano. Infine, in terzo luogo, trasmettere un messaggio positivo ai bergamaschi, che li vedono impegnati nel dare il proprio apporto per il bene comune”.

Gli interventi che effettueranno saranno concertati con il Comune di Bergamo, come afferma l’assessore all’ambiente, politiche energetiche e verde pubblico Graziella Leyla Ciagà: “Il loro impegno sarà un prezioso supplemento per la pulizia di parchi e aree verdi della città: svuoteranno i cestini, puliranno i tappeti erbosi e raccoglieranno le foglie, con un servizio di utilità collettiva”.

A essersi resi disponibili attualmente sono una cinquantina di profughi, giovani e tutti maggiorenni, provenienti da Pakistan, Mali, Gambia e Nigeria. Un tasso di adesione significativo, considerando che complessivamente nelle strutture cittadine – Gleno e casa Amadei – risiedono 83 persone. Quattro profughi volontari – Mamadou, Mohammed, Djwara, Boubacar – di età compresa tra i 18 e i 28 anni, hanno evidenziato: “Contribuire alla cura della città è un modo per ringraziare per l’accoglienza ricevuta. Non vogliamo stare con le mani in mano: dormire e mangiare non basta, vorremmo lavorare. L’impegno nella pulizia dei parchi, quindi, è un modo per esprimere il nostro grazie alla città che ci ospita".

Raccontando la propria storia, Djwara Marega dichiara: “Sono partito dalla mia terra, in Africa, dal nord del Mali, due anni fa, nel 2013, quando era scoppiata la guerra. Quando sono arrivati i ribelli in quella zona i poliziotti del governo avevano consigliato di lasciare il Paese perché i ribelli, osservando la data di nascita, avrebbero arruolato di forza tutti i ragazzi. Così, sono partito insieme ad altri giovani, in direzione Algeria: ho attraversato il deserto del Sahara a bordo di una Gip, senza acqua per quattro giorni. In Algeria ho trovato da vivere, ma era molto difficile: non si riusciva ad avere tutti i giorni un’occupazione. Ho svolto diversi lavori, ma soprattutto ho fatto il muratore. Lasciata l’Algeria, perché le difficoltà crescevano, mi sono spostato in Libia, dove ho trovato la guerra. Mi sono fermato lì due mesi, in cerca di lavoro, ma i problemi erano parecchi. Ad esempio, i poliziotti catturavano e imprigionavano le persone di colore, senza motivo, solamente perché erano nere. Una volta mi hanno preso ma, in quell’occasione, sono stato abbastanza fortunato, perché non mi hanno condotto in carcere ma in riva al mare, dove sono stato costretto con la forza a salire su una barca. Quattro giorni dopo, quando l’imbarcazione ha raggiunto la terra ferma, sono arrivato in Italia, anche se non sapevo dove fossi. Era il 18 luglio 2014 quando sono sbarcato a Siracusa, poi i militari mi hanno accompagnato a Bergamo, facendo prima tappa all’aeroporto della Malpensa”.

Storia analoga a quella di Djwara, sempre molto intensa, è quella di Mamadou Marega, che racconta: “Ho perso mia mamma da piccolo e una famiglia di vicini si occupava di me, ricevendo un affitto da mio papà. Lui faceva il commerciante in Mali, e vendeva prodotti per donne, dalle creme per il corpo ai cosmetici. Prodotti che non erano graditi ai jihadisti, che un giorno gli bruciarono il negozio. Dopo quel tragico evento ho perso le sue tracce, e penso sia stato ucciso da loro. Ho dovuto lasciare la casa dei miei vicini, che non ricevevano più l’affito da mio padre per coprire le spese per ospitarmi, quindi, ho lasciato il mio Paese per cercare una vita migliore. Mi sono recato prima in Burkina Faso e poi in Niger: viaggiavo da solo, a piedi, e per strada molti cercavano di aiutarmi vedendo che ero un ragazzino. In Niger incontrai persone più grandi di me che dicevano di volersi recare in Libia, dove si diceva ci fosse più lavoro. Ma non avevo denaro per raggiungere quel Paese, fino a quando, a un certo punto, ho conosciuto una persona che poteva darmi un lavoro, e con i risparmi avrei potuto andare in Libia. Vi andai a bordo di una vecchia Pegeout: in quell’auto, insieme a me, c’erano altre 35 persone. Attraversammo il deserto del Sahara in una settimana senza cibo né acqua. E lungo il percorso morirono 4 uomini. La persona che aveva organizzato il trasporto, di origine libica, era ricca e mi offrì di lavorare, insieme ad altri 13 giovani, nel giardino di casa sua, alloggiando da lui. Era una villa di grandi dimensioni, spesso saccheggiata dai banditi: avevamo paura che i ladri potessero rubare il nostro stipendio, così nascondevamo il denaro guadagnato sotto terra. Un giorno, però, il proprietario della casa ci diede lo stipendio – 400 dinari – e se ne andò. Improvvisamente entrarono in casa dei poliziotti: ci picchiarono, ci catturarono e ci portarono in prigione, dove restammo una settimana senza cibo, fino quando una notte ci hanno caricato e condotto in riva al mare. Lì ci fecero salire a forza su una nave, senza sapere dove stessimo andando. Non sapevo nemmeno dove fosse l’Italia: una volta sceso in terraferma mi dissero che l’Italia è in Europa. Anch’io sbarcai a Siracusa il 18 luglio 2014, poi i militari mi portarono prima alla Malpensa in aereo e poi, con il pullman, a Bergamo, una città che non conoscevo. Ho vissuto tante esperienze difficili e, nonostante tutto, mi reputo fortunato, per essere riuscito a sopravvivere. Per il prossimo futuro mi piacerebbe trovare un lavoro e riuscire a vivere in maniera più stabile”.

Paolo Ghisleni

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