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Musica

Notaio in note

Vorrei una suite: “Close To The Edge” o “Supper’s Ready”?

Se, di primo acchito, la parola "suite" vi evoca l'immagine di una lussuosa camera d'albergo, queste "note" non fanno per voi... Se invece essa vi riporta alla mente l'intera facciata di un LP, allora continuate pure a leggere il nostro Maurizio Luraghi.

Se, di primo acchito, la parola "suite" vi evoca l’immagine di una lussuosa camera d’albergo, queste "note" non fanno per voi… Se invece essa vi riporta alla mente l’intera facciata di un LP, allora continuate pure a leggere…

Immaginate di essere agli inizi degli anni ’70 (epoca di cui sentirete spesso parlare nelle mie "note"), tempi in cui la durata media di un brano musicale non superava i 4 minuti, e di ritrovarvi invece sul giradischi il lato A (o B…) di un disco occupato da un solo brano, della durata variabile dai 18 ai 24 minuti: ecco, mettetevi comodi e preparatevi ad ascoltare una bella "suite"…

Brani come "Close to the Edge" degli Yes, "Supper’s Ready" dei Genesis, "Atom Heart Mother" e "Echoes" dei Pink Floyd, "Tarkus" degli EL&P, "Thick as a Brick" dei Jethro Tull (che di facciate ne occupava addirittura due), contribuirono all’epoca, insieme allo sgretolamento della "forma canzone", alla nascita di quel glorioso genere musicale che, negli anni successivi, venne etichettato (con una brutta parola) "Progressive Rock": un genere contraddistinto da lunghi brani ("suite", appunto, termine mutuato dall’ambito musicale classico), caratterizzati spesso da cambi di tempo metronomico (bit) e di metro (frequente è l’alternanza tra tempi semplici, quale il classico 4/4, e tempi composti o irregolari: l’"Apocalypse in 9/8" contenuta in "Supper’s Ready" ne è un bell’esempio), oltre che da passaggi dal modo maggiore a quello minore (e viceversa) e da arrangiamenti complessi (talvolta addirittura ridondanti).

Di due in particolare di queste "suite" vi vorrei parlare in queste note, in primo luogo perché sono quelle che mi piacciono di più (a giorni alterni, l’una o l’altra occupano il primo posto nella mia personale classifica di gradimento), ma anche perché entrambe sono state recentemente oggetto di "remissaggi" ("remix") e "rimasterizzazioni" ("remastering"): nel primo caso, il missaggio originale viene (più o meno pesantemente) modificato partendo dai "master" originali (nastri analogici multitraccia contenenti le registrazioni originali delle singole parti), mentre nel secondo l’intervento sui nastri originali si limita a "ritoccare" digitalmente aspetti della registrazione quali la gamma dinamica e il bilanciamento tonale, al fine di migliorare la resa sonora complessiva del brano (talvolta con risultati devo dire assai deludenti…).

Al di là dell’opportunità o meno di mettere le mani su brani che hanno fatto la storia del rock e che l’appassionato conosce a menadito, devo dire che dette operazioni – se poste in essere da soggetti preparati, non solo tecnicamente ma anche musicalmente – possono riservare all’ascoltatore odierno (anche a quello più scettico e smaliziato) piacevoli sorprese sonore.

Ma partiamo con Close To The Edge, brano iniziale (occupante l’intera prima facciata) del quinto omonimo album degli Yes, registrato nell’anno di grazia 1972 dalla formazione "classica" (e migliore) della band inglese, quella composta da Jon Anderson, Chris Squire, Steve Howe, Rick Wakeman e Bill Bruford e pubblicato da Atlantic il 13 settembre 1972.

Vero e proprio capolavoro del rock progressivo (studiato anche da musicologi del calibro di John Covach – fautore della "New Musicology" – che nel 2001 ne fece oggetto di una vera e propria analisi melodica, armonica e ritmica), nel corso dei suoi 18:43 minuti alterna momenti di free rock (la sezione iniziale, con la Gibson ES-175 di Steve Howe in bella evidenza), a pause di riflessione (se così le possiamo chiamare), morbidamente appoggiate su tappeti sonori creati dalle tastiere di Rick Wakeman.

Ma l’apice assoluto si raggiunge dal minuto 13:05 al 15:54 (secondo più, secondo meno): introdotto dall’etereo tema vocale della sezione "I Get Up, I Get Down" (una delle migliori prove di Jon Anderson), a 13:05 entra prepotente l’organo a canne di Wakeman, preludio alla sezione strumentale più emozionante dell’intero brano, culminante in un fantastico solo di organo Hammond. Al termine del solo, riprende il tema cantato iniziale, e poi il brano finisce (così come era iniziato) sfumando sui rumori di un torrente che scorre…

Per chi volesse apprezzare appieno il brano in oggetto anche dal punto di vista "audiofilo", esistono molte edizioni degne di nota: a partire da quella (quasi introvabile) su vinile dell’etichetta MOFI (Original Master Recording) fino a quella, recente, curata da Steven Wilson, cantante e chitarrista dei Porcupine Tree, gruppo che più di ogni altro porta avanti gli stilemi del rock progressivo: in essa (disponibile in cd + dvd o in cd + blu-ray), accanto alla versione originale rimasterizzata si possono ascoltare ed apprezzare anche nuovi missaggi, sia stereo che multicanale (5.1), ad alta definizione (in formato c.d. "lossless", cioè senza perdita di informazioni sonore): una vera e propria "edizione definitiva" che non può mancare nella collezione dell’appassionato, magari accanto alla preziosa prima stampa inglese su vinile.

Ed ora alziamoci dalla poltrona, prendiamo un altro vinile dallo scaffale, estraiamo il disco dalla copertina, mettiamo sul piatto del giradischi e facciamo scendere delicatamente la puntina (che fatica, vero? vuoi mettere la comodità di iTunes?) sulla seconda facciata di Foxtrot: introdotta dal breve preludio chitarristico di "Horizons", partono i quasi 23 minuti di Supper’s Ready, brano finale del quarto album dei Genesis, considerato, insieme a "Nursery Cryme", "Selling England by the Pound" e "The Lamb Lies Down on Broadway", uno dei migliori dell’era "Gabriel" del gruppo inglese, registrato anch’esso, guarda caso, nel 1972 e pubblicato da Charisma il 6 ottobre 1972, a pochi giorni di distanza da "Close to the Edge".

Rispetto a quest’ultima, quella dei Genesis (per molti, "La" suite per antonomasia) è più complessa, soprattutto sotto i profili esecutivo (molto belle ed elaborate sono soprattutto le parti di chitarra a 12 corde e quelle di batteria) formale (le varie sezioni di cui si compone sono molto diverse tra di loro, anche se, alla fine, risultano talmente bene integrate tra di loro da sembrare ciascuna il naturale completamento di quella immediatamente precedente, in ciò stando la vera essenza del concetto di "suite"), oltre che melodico, armonico e ritmico.

In questa sede vorrei limitarmi a ricordare, su tutte, la già menzionata sezione intitolata "Apocalyspe in 9/8", per me uno dei momenti strumentali più belli e rappresentativi di tutta la produzione (con o senza Gabriel) dei Genesis: purtroppo, per ragioni anagrafiche, non ho avuto la possibilità di vedere i Genesis dal vivo (parlo ovviamente dei Genesis con Peter Gabriel, quali se no?), ma ho avuto tuttavia l’occasione di vedere (più volte) i concerti dei "Musical Box", gruppo canadese che da anni porta in giro per il mondo delle vere e proprie fedeli riproduzioni (sia dal punto di vista musicale che scenico, utilizzando addirittura strumenti musicali originali dell’epoca…) degli spettacoli dell’era d’oro della band inglese.

Così (aiutato in tal senso anche dall’ascolto delle registrazioni live originali), mi sono potuto rendere conto di quella che poteva essere l’abilità strumentale di ciascuno dei componenti del gruppo: un’abilità che viene maggiormente messa in evidenza in momenti come quelli in esame (ma ricordo anche le sezioni strumentali di Firth of Fifth e di Cinema Show, brani entrambi contenuti in Selling England by the Pound).

In particolare, di "Apocalypse in 9/8" va sottolineata la straordinaria integrazione tra le parti di tastiera, chitarra ritmica e batteria, che insieme formano un solido muro di suono sul quale va a schiantarsi la voce tiratissima di Peter Gabriel, con il celebre "666"... Poi arrivano le tre note (Re, Fa, Si bemolle) suonate da Phil Collins sulle campane tubolari, l’Angelo Nero si trasforma in Angelo Bianco, Gabriel solleva in alto la luce nera e, sugli accordi delle tastiere di Tony Banks ,il brano sfuma, lasciandoci "piacevolmente storditi" ad osservare il disco che gira a vuoto sul piatto del giradischi…

Anche di Foxtrot esistono varie versioni "audiophiles", da ultimo mi piace ricordare quella curata da Nick Davies, il quale, con una operazione sia di remix che di remastering, ha qualche anno fa rieditato, su cd e sacd, in stereo e in multicanale, tutti gli album dei Genesis.

Ma secondo me la versione più "ben suonante" di Foxtrot è quella curata dalla (ormai purtroppo scomparsa) etichetta americana Classic Records, che, partendo dai master originali, ha ripubblicato su vinile pesante (sia a 180 che a 200 grammi) buona parte degli album dei Genesis dell’era Gabriel. Chi li volesse, può cercarli in rete: si trovano ancora, anche se a prezzi elevati (i miei me li tengo ben stretti…).

Alle prossime "note"! 

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