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Tributo a Jackson Browne: Springsteen e tanti altri tra west coast e ricordi

"Stay", il capolavoro che l'ha reso famoso nel mondo non c'è, ma " Looking Into You: a tribute to Jackson Browne" è un disco che merita di essere ascoltato per un artista che merita di essere riscoperto. Parola di Brother Giober.

Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema

** se non ho proprio altro da ascoltare…

*** in fin dei conti, poteva essere peggio

**** da tempo non sentivo niente del genere

***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

 

ARTISTA : AA.VV.

TITOLO: Looking Into You: a tribute to Jackson Browne

GIUDIZIO: ****

Ascoltavo Carlo Massarini ogni volta che potevo, quasi sempre alla radio anche se in quegli anni iniziava a trasmettere anche in tivu. Gli ero riconoscente per avermi fatto incontrare un sacco di musicisti che poi non ho più smesso di amare: Stevie Wonder, gli Eagles, Garland Jeffreys, Robert Palmer (proprio quello della terribile John and Mary). Artisti che allora si ascoltavano raramente anche nei pochi programmi rock dove invece andavano per la maggiore il prog inglese piuttosto che i grandi gruppi della fine degli anni sessanta, primi settanta.

Quello che mi piaceva di Massarini era il suo farti sentire parte della trasmissione, quasi fossi l’unico ascoltatore.

Un sera, tra uno “Wonder” e un Van Morrison d’annata, iniziò a passare un brano di tal Jackson Browne, un artista della west coast, descritto come uomo timido e gentile, cantore dell’amore e di tutte le sue più riposte angolature e delle pene dell’uomo in genere.

La voce non mi colpì particolarmente, troppo delicata, sebbene l’artista fosse uno dei coristi più richiesti a quell’epoca, ma le musiche, come i testi, sì.

Massarini coniò per lui il vezzeggiativo di “fratellino”, e così Jackson Browne divenne per tutti noi “fratellino Jackson” a voler significare l’intimità che l’artista era in grado di creare con l’ascoltatore.

Dopo Late for the Sky, il suo album grazie al quale iniziai a conoscerlo, persi un po’ le tracce di “fratellino Jackson” sino a che un’amica dell’epoca, impenitente discotecara, mi disse di apprezzare un artista che forse sarebbe piaciuto anche a me, autore di una canzone molto carina ed orecchiabile. Il sol fatto che per un attimo i miei gusti potessero essere comuni ai suoi mi inorridì ma, in onore dell’amicizia, acconsentì all’ascolto: il pezzo era Stay, una canzoncina semplice ed orecchiabile che chiudeva l’album, Running on Empty che, grazie al singolo traino, divenne un successo mondiale.

Da quel momento “Fratellino Jackson” smise di essere cantore per pochi e assunse il rango di star internazionale.

Ma a differenza di molti suoi colleghi non si imbolsì, anzi sfrutto la propria fama per promuovere alcuni progetti di grande impatto. Il più noto, No Nukes, conobbe la sua apoteosi in un concerto dal quale venne tratto un doppio album nel quale spiccavano le esibizioni eccellenti del Boss, dei POCO, dei Doobie Brothers e di tanti altri.

Smarrii poi le tracce del nostro anche perché la sua produzione musicale iniziò a perdere un po’ di smalto.

Nonostante ciò “fratellino Jackson” continua ancor oggi ad essere amato e stimato tanto da arrivare a questo tributo, contenuto in un doppio cd niente male.

Il lavoro raccoglie numerosi artisti, affini per estrazione musicale e in molti casi anche per età al nostro: Bruce Springsteen, Don Henley, Lyle Lovett, Lucinda Williams, Bruce Hornsby, Ben Harper e molti altri tra cui, per me, alcuni sconosciuti.

Suonano strane alcune assenze, in primis quella dei compagni di tante battaglie come David Crosby e Graham Nash.

Come tutti i tributi sconta la debolezza che rinviene da certa eterogeneità delle esibizioni, ma meno rispetto ad altri. In questo c’è, generalmente, un grande rispetto per la materia trattata: si respira in quasi tutte le registrazioni aria di west coast, voglia di stare insieme, di condividere.

L’opera è suddivisa in due dischi: molte le cose belle poche quelle brutte.

L’inizio è di These Days interpretata dall’ “aquilotto” Don Henley il quale, anche nel modo di cantare cerca di ricordare Jackson Browne. La riproposizione non è male anche se l’intermezzo strumentale è risultato alle mie orecchie un po’ tronfio.

Bonnie Raitt propone Everywhere I Go con un arrangiamento reggae che, nonostante la presenza di David Lindley, non convince, pessimo poi il rap, o pseudo tale, a metà brano.

Running On Empty interpretata da Bob Schneider, più lenta rispetto all’originale. Il brano all’inizio non mi aveva colpito più di tanto ma poi, ripetuti ascolti, mi hanno fatto cambiare opinione. Bello e intenso.

Per fortuna arrivano le Indigo Girls che offrono una versione di Fountain of Sorrow cantata in modo divino e arrangiata ancor meglio. La presenza di Chuck Leavell alle tastiere (Little Feat) garantisce quel tocco sublime che solo artisti di questa caratura sono in grado di dare.

Doctor My Eyes è stato il primo successo del nostro. Un brano simpatico e divertente che a me ricorda Crocodile Rock di Elton John per il clima allegro che riesce ad instaurare. La cover, affidata a Paul Thorn, è convincente.

For Everyman, uno dei più bei brani di Jackson Browne, è affidato a Jimmy La Fave, un artista di culto, autore di una serie di album che consiglio a tutti, fortemente influenzati da Bob Dylan e da tutta la canzone d’autore americana. La versione è una delle cose più belle del disco intero e, in particolare, colpisce il violino di Todd Reynolds tanto intenso da entrarti nelle viscere senza più uscirne.

Meritevole di menzione è Barricades of Heaven affidata a Griffin House mentre bellissima è Our Lady of the Wall affidata alle cure di quel mostro di bravura che è Lyle Lovett il quale offre una versione scarna ed essenziale nella quale emergono i tamburi di Russ Kunkel (ma quanti anni ha?) e il backing vocal di Sara Watkins. Pura West Coast!

Ben Harper fa del suo meglio per regalarci una versione di Jamaica Say You Will ma la resa è inferiore alle attese; neppure la bella voce di Elyza Gilkison riesce a rendere il giusto merito a una canzone bella come Before The Deluge.

Mi hanno sorpreso invece i Venice che proprio non so chi siano; rilevo solo che i componenti, tutti, portano un cognome per nulla impegnativo: Lennon! La loro versione di For a Dancer è una delle cose più belle del disco, semplice ma toccante soprattutto grazie alle armonie vocali che riescono a creare.

Chiude il primo disco Looking Into You: la versione di Kevin Welch per certi versi sorprende nel suo tentativo di equilibrio tra soul e country ma è senza dubbio riuscita.

Il secondo disco apre con Rock me On The Water: Keb’Mo’ regala una versione che potrebbe essere facilmente confusa con una di quelle canzoni che hanno fatto fortuna di The Band nelle quali il country si sposa perfettamente con la musica nera.

Da Lucinda Williams francamente mi aspettavo di più: la sua versione di The Pretender è francamente troppo sonnacchiosa mentre sopra una spanna è Rosie affidata ancora a Lyle Lovett: il brano imperniato solo sull’accompagnamento del pianoforte mantiene tutta la sua bellezza originaria. Lo stesso Lyle Lovett non è mai sopra le righe e quando canta sembra proprio Jackson Browne.

Toh chi si risente! Karla Bonoff negli anni ’70 era una delle coriste più richieste. La voce è rimasta bella e la sua interpretazione di Something Fine è toccante, delicata e lascia il segno. Un salto indietro nel tempo e molta nostalgia.

Un altro desaparecidos è Marc Cohn, autore negli anni ’80 di un grande album di debutto, offre una prova di classe eccelsa: la sua Too Many Angels è polverosa, desertica, ricorda alcuni brani di Lyle Lovett. Bellissima.

Sara e Sean Watkins non colgono il segno con You Bright Baby Blues, l’interpretazione nonostante le evidenti buone intenzioni è troppo didascalica e il tutto perde di soul, riducendosi a fredda riproposizione.

Tocca al Boss in compagnia della di lui compagna Patti Scialfa. L’interpretazione di Linda Paloma, nonostante la sua voce sia quanto di più distante da quella dell’originale, è misurata a discreta ed alla fine convince. E Patti Scialfa quando si limita a fare la corista è proprio brava.

A Shawn Colvin è stata affidata Call It a Loan, una canzone che neanche se la interpretassi io riuscirei a rovinarla: e in effetti, sapendo del rischio, l’artista offre una versione scarna, solo chitarra e voce, in modo da evitare il vilipendio.

Bruce Hornsby si “becca” I’m Alive, un brano molto radiofonico che non mi ha mai convinto. Questa versione è molto più essenziale, acustica ma francamente non mi convince più di tanto.

Perché affidare Late for the Sky a Joan Osborne, artista appena discreta, è per me un mistero. Guarda caso la versione è un’occasione sprecata, perché un capolavoro assoluto diventa una canzone del tutto anonima priva di qualsiasi guizzo melodico. Passare oltre.

Chiude My Opening Farewell, ad interpretarla una vecchia conoscenza: J.D. Southern, se non ricordo male è stato con i Poco e, forse, ancor prima con i Buffalo Springfield (quindi a occhio e croce deve essere più vino ai “75” che non ai “70”). Però tra una percussione in sottofondo, flauti e trombe il brano è proprio bello e chiude in bellezza un disco tutto sommato riuscito. Più di molti altri tributi.

Guarda caso Stay non viene riproposta ma Jackson Browne è un po’ come Neil Young, uno che se ne frega delle regole del business.

Un tuffo nel passato, l’incontro con tanti artisti di cui si erano persi le tracce. Un disco che merita di essere ascoltato e un artista che merita di essere riscoperto

Se non si vuole ascoltare tutto il disco: Fountain of Sorrow

Se non ti basta ascolta anche:

Jackson Browne – Late for the Sky

CSN & Y – So far

Eagles – Desperado

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