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L'intervista

Zaira Cagnoni, la signora dei servizi sociali: “Giù le mani dagli stranieri”

Zaira Cagnoni prova a dipingere un suo personalissimo quadro della città. La città in cui è stata ed è ancora protagonista in varie vesti, ma che, dalla Casa delle lavoratrice all'mministrazione pubblica, dal pensionato universitario all'ufficio tutela dei malati, hanno avuto un minimo comune denominatore: l'attenzione ai deboli della società  bergamasca.

“La gente mi chiamava ‘chela dei sbrofì’ perché nei miei numerosi mandati assessorili, incaricata di curare anche il cimitero, decisi di far mettere dei piccoli innaffiatoi per eliminare quelle antiestetiche e anche pericolose bottiglie di vetro”. Zaira Cagnoni sorride ricordando l’affetto di chi l’ha conosciuta nelle varie vesti con cui ha colorato la propria vita.

Vesti che le hanno portato anche il titolo di commendatore, ma che dalla Casa della lavoratrice (fondata più di cinquant’anni orsono e ancora da lei gestita e curata) all’amministrazione pubblica, dal pensionato universitario all’ufficio tutela dei malati, dalla Difesa della donna alla Croce rossa italiana, hanno avuto un minimo comune denominatore: l’attenzione ai deboli della società bergamasca. E questa decisa e dolce signora ultraottantenne prova a dipingere un suo personalissimo quadro della città.

Ma le piace questa città? O la preferiva venti, trent’anni fa?

Mi piace, sì, devo dire che è cambiata in meglio. Rido quando dicono che non c’è niente di buono qui. Non è tutto buono sia chiaro, però si sta bene. Ho ancora un mio vecchio appunto da ripetere: Bergamo è sporca, non è decorosa, mancano fiori e piccoli segnali di un’attenzione che si merita. Anche in Città alta vedo trasandatezza. Troppa. Ed è facile, troppo semplicistico e anche bugiardo dar la colpa agli extracomunitari.

Bergamaschi scaricabarile?

Stiamo attenti con gli stranieri. Smettiamola di dar loro addosso e ricordiamoci di quando eravamo noi gli immigrati. Io nel dopoguerra ho diretto per tre anni un pensionato di emigranti italiani nel Canton Ticino. Ho visto tanti maltrattamenti. E mi ricordo quando mi chiamavano e si lamentavano perché le ragazze operaie, anche quelle bergamasche, all’uscita dalla fabbrica alle dieci di sera cantavano disturbando i residenti svizzeri. E poi non mi parlino di paure legate agli stranieri. La vera emergenza c’è stata negli anni Ottanta, al primo arrivo in massa degli extracomunitari.

Cosa successe?

Che non si sapeva dove alloggiarli. Ho ben in mente quando una casa zeppa di extracomunitari in Borgo Palazzo minacciava di cadere: abbiamo aperto la caserma Colleoni a Redona. E’ stata poi emergenza acuta, quando l’ostello chiuse e ci trovammo un popolo di stranieri abbarbicato al monumento davanti al Comune. Io ero assessore, ricevetti una delegazione dei senzatetto che mi disse che erano un’ottantina. Feci preparare in fretta e furia le brande che venivano usate durante le elezioni: 80 brande. Invece erano in 180, ho dovuto dividere in due i letti. Quelli erano problemi. Problemi da risolvere in fretta.

Lei è stata una decisionista o preferiva cercare con calma le soluzioni?

Da sempre preferisco risolvere le questioni. Anche rischiando, ma affrontandole di petto. Ricordo quando in Comune si doveva decidere se finanziare la nascita dell’aeroporto. Ero tra quelli che dicevano: avanti, rischiamo, mentre molti amministratori facevano i conti e sottolineavano che non c’erano i soldi.Ma ha visto il successo dell’aeroporto?

Si considera un battagliera, dunque?

Abbastanza. Anche sul Don Orione ho dovuto lottare. Avevo contro tutti, dall’Asl alla casa di riposo di via Gleno. Eppure è stata una mia vittoria. E meno male che c’è, oggi, con i servizi che offre ai malati terminali, a chi è in stato di coma…

A proposito della casa di via Gleno: come giudica la situazione di oggi?

Sa che non so capacitarmi? Solo vent’anni fa non c’erano tutti questi problemi. Dove sono finiti i soldi, mi chiedo? Come hanno fatto a indebitarla? Ma temo che oggi sia cambiato il modo di fare amministrazione e politica. E’ anche per quello che mi limito a tenermi informata, ma ne ho preso le distanze.

Non le piace la politica bergamasca?

Non mi piace più la politica italiana. Io, si sa sono stata democristiana, poi sono stata eletta nell’Udc, ho scelto la continuità, né di qua né di là. Ma l’ultimo mandato da consigliere comunale di maggioranza, con la Giunta Veneziani, non riuscivo a capire chi e come gestisse la cosa pubblica. Non c’erano più strategie e scelte di partito, non si facevano più le riunioni per decidere quale linea adottare. Davvero, non capivo più.

Non capiva, però alla sua maggioranza una bella mazzata la diede quando face cadere il progetto di fusione tra la Bas e la multiutility di Como.

Proprio perché non avevo capito niente: chiedevo spiegazioni politiche e mi arrivavano spiegazioni tecniche. Alla fine mi diedero due giorni per decidermi. E io decisi di non decidere. Cosa dovevo fare?

Quindi adesso basta politica? Basta. Non fa per me. Non c’è la politica, c’è altro. Meglio continuare nella casa della lavoratrice che ospita 117 persone, oggi anche lavoratori uomini. E poi ogni giovedì sono nell’ufficio di tutela del malato a cercare di dirimere contenziosi delicati. Ma sono attività concrete che ancora danno soddisfazione, per le quali la gente ancora mi ferma per strada e mi ringrazia.

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